Molte delle cose che ho perduto sono bianche.
Bianco è il telefono che mi rubarono mentre ero distratta a proteggere altra tecnologia.
Il gatto che mi regalarono quando ero alle elementari, bianco, dal primo giorno non ha più smesso di fare la cacca nella vasca da bagno, bianca anche quella. In casa hanno subito pensato di sbarazzarsene, del gatto, non della vasca.
Quaderni e album da disegno, ancora incartati nella pellicola trasparente, puntualmente scomparivano.
Quella buffa mia abitudine di strofinare i palmi delle mani sull’intonaco in cucina e poi passarlo sulle palpebre, una traccia di chiaro, che così faceva mamma, mi raccontava, quando ballava al teatro che non c’erano ombretti e fondotinta nell’85, in Kazakistan. Esistevano però camerini color pesca o salmone e corridoi candidi, pieni di ditate.
E poi ollane di perle della comunione, gli orecchini di corallo bianco, una trapunta a quadri monocolore, cioè senza colore, lasciata a casa di qualcuno nel corso di decine di traslochi. Tutto perso.
Bianchi gli scogli che non ho più rivisto, da quando ho lasciato l’isola, barattati per la capitale e per una casa, con le pareti imbiancate nove mesi fa che stanno già ingiallendo.
(Sono qui, torno presto)
Io ho un problema con i cibi bianchi: se non sono “sporcati” da qualsiasi altro colore non riesco a mangiarli…
Bianco-fobica
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