Sconosciuti

Volevo fare un polverone trattando ancora di Americanate, ma proprio un paio di giorni fa mi sono ritrovata a parlare con uno sconosciuto di un argomento che spesso giace nel girone del vanitosi dopo aver percorso il vasto ramo della filosofia spicciola.
Ma la lingua inglese permette più inflessioni di quante l’italiano possa esprimere mettendo in riga “Capito?”, “no?” “Cioè” e in allegato tutta la serie di gesticolii.

Questi Americani la fanno più facile degli italiani, sarà che si arrangiano per la maggior parte dei casi rigirando i condizionali come calzini?chissà perchè? Questione di facilità?

Insomma, penso che sia così anche per l’Arte, abbiamo un sacco di concetti in un’ipotetica lingua universale. Funziona così: tutti parlano, chi più, chi meno, ma comunque per esprimersi e farsi capire. Poi accade che qualcuno dice qualcosa di così colorato e scostante da ciò che gli altri un minuto fa mormoravano, che crea un po’ di movimento, approvazioni, dibattiti, riscontri e proteste. Il tutto per aver espresso se stesso in modo personale. Questo è, a mio parere, l’Arte, disse lo sconosciuto rimettendosi il cappello e lasciando sul tavolo del Benvenuto Cafè una manciata di dollari come mancia.
Mancia per un caffè che non aveva mia preso.

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Nella mia settimana di vacanze passata a New York ho cercato più volte di ricordarmi dove fosse un posto nel quale mi ero fermata mesi prima, all’inizio dell’estate, in uno dei miei ultimi weekend lunghi, liberi.
Un locale che avevo trovato per caso facendomi sorprendere da un’appiccicosa pioggia. Dalla vetrina avevo visto un grande tavolo in mogano, non molto alto e con gli sgabelli in legno. Non c’erano che una manciata di persone, qualcuno seduto davanti al proprio laptop, altri impegnati a leggere un libro o giornale.
Ci sono entrata, rendendomi conto dopo pochi passi che si trattava di uno Starbucks.
Non avevo ancora iniziato la mia battaglia contro gli stereotipi e stavo per uscire subito, ma la pioggia si era fatta scrosciante e mi trovavo sulla 31esima strada, quella zona dove se non è uno Starbucks ad accoglierti, lo farà certamente un McDonalds o una fermata afosa della Subway.
Lì ho conosciuto un pezzo di Manhattan che mi mancava. Quello di Wall Street.
Perche coloro che ci lavorano, nella pausa pranzo si vanno a rifugiare in posti così, oppure nei parchi. Non è difficile vedere uomini in camici, cravatta e zainetto stesi su qualche roccia o all’ombra di un salice in Central Park. Enormi lucertole umane, che non siete altro Newyorkesi!

Michael ha 28 anni, non è sposato -ha tenuto a farmelo sapere dopo essersi presentato-
Io ho annuito sorridendo e ripreso a leggere Wallace, ma lui ha continuato a chiedermi se per caso la macchia che avevo di inchiostro sul polpastrello dell’indice a del pollice fosse dovuta al fatto che sono una persona che prende tanti appunti.
Non so che razza di collegamento, Michael, tu stia facendo –  gli ha detto il cameriere passando accanto con una brocca fumante di caffè e riempendomi il bicchiere.
Nello Starbucks, si.
Allora ho pensato che nulla qui fosse convenzionale, che era il caso di accantonare davvero questi stereotipi e fare un passo indietro e due avanti, solo per rendersi conto che ogni volta che dico A, non è detto che sia per forza una a maiuscola.

E tutto ciò per dire che quando poi, accanto a me si andrà a sedere un americanissimo fan di Biagio Antonacci, eviterò di snobbarlo, ma guarderò con ammirazione il polsino con le iniziali dorate del suo idolo ringraziando l’Oceano per non essere proprio una muraglia tra Europa e America.
Capito?
E spargiamola un po’ di questa internazionalità, che si tratti di Morricone o di Biagio, pare sempre un buon inizio.

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Say it twice, say it again

(PREMESSA:
Questo post conterra` accenti mancati, sempre che si possa contenere qualcosa che manca. Attualmente il computer in uso ha una tastiera non soltanto qwerty ma anche قشعرتط , che qualsiasi cosa voglia dire, giuro si scrive pigiando qwerty in modalita` arabica.)

Se trovarsi di fronte a case rosa non sorprende piu` alcun italiano, a meno che non sia vissuto per tutta la vita a Lugano o Milano zona aeroporto, imbattersi in qualcosa del genere puo` sconvolgere qualsiasi prospettiva. Le usano le biciclette a New York,
piu` di Seattle, questo e` certo,
piu` di Udine, un po` meno, certo, ma pur sempre notevole [ammetto, la mancanza di accenti mi sta facendo impazzire dalla prima riga, ma non vale la pena di buttare la spugna, ora che, seduta dall`altro lato dell`isola di New York, cerco di spiegare qualcosa che vada oltre il rosa delle case rosa del West Village].

Quindi, l`inglese sta diventando il motivo per il quale stringere i pugni e resistere, qui, oltreoceano. Non avrei mai pensato fosse cosi` difficile. Sara` che non mi ero mai scontrata con una lingua diversa dall`italiano e del russo in modo cosi` diretto. E ci va pure di mezzo la mia sopravvivenza.
Ed invece eccomi qui, a passare i mei martedi e mercoledi in compagnia di stranieri, americani, spagnoli, chiunque, eccetto portatori di madrelingua. La mia madrelingua. Quella che per esprimere un concetto, se non si gesticola, e` come l`acqua dopo i cavoli bolliti, senza cavoli.
In realta` gia` il fatto di non svegliarmi ogni mattina con l`idea di tradurre ogni singola cosa che mi venga in mente, in modo totalmente random, dall`italiano all`inglese, mi riempie di gioia. Gioia che rende le mie ossa leggere, anche alla visione dell`Oceano (ogni giorno piu` pesante e blu, oltre la finestra del mio bagno).

Ma che dire di questa Grande Citta` che accoglie a braccia aperte abitanti e turisti allo stesso maestoso modo?

Sette mesi e mezzo sono scivoltati, tra poco smettero` con i conti alla rovescia per eccesso, perche` la fine prima o poi dovra` arrivare. Ne avevo parlato qualche post fa, ma davvero e` impossibile oltre che visitare anche solo stufarsi di New York, per quanta musica si possa sentire agli angoli di Manhattan o Brooklyn, nelle Subway o sotto i ponti del Central Park all`ora del tramonto, per quante foto si possano scattare, fermando senza bloccare momenti di vita quotidiana in questa metropoli,

mai si potra` trovare le parole perfette per descrivere il Tanto che c`e`.

Seduta al bar a leggere cose che mai avrei letto mesi fa, il caffe` in tazza grande, qualche tranquillo e riposato cameriere attorno. Nessuno mi chiede di alzarmi finche` non avremo finito l`ultimo sorso e mangiato l`ultimo pezzo di bacon.
La meraviglia sta nel sentirsi a casa ovunque, su qualsiasi strada, a qualsiasi ora. |
E se questo non e` un dono che la citta` fa a qualsiasi visitatore, ditemi voi cos`e`.
In Noho nei negozi di vestiti vendono granoturco. Mais, pannocchie, come preferite. Non ho immagini di tutto cio` perche` per la sorpresa ho lasciato scivolare la mia macchina fotografica in borsa, gustandomi cucchiaini di corn intervallati a bicchierini di rosso. Californiano, mica cose pacchiane. Mais e Vinello.
Capite quanto assurdo ora possa suonare un abbinamento come pere e formaggio o prosciutto e melone?

 

 

Mi devo organizzare meglio, il primo passo e` fatto, alla fine ci sono riuscita: in macchina fino alla Citta` e oltre, nel traffico giallo e rosso della 6th Ave, dopo il ponte di Brooklyn, le folle colorate, venditori di Tacos, frutta, involtini primavera, fette di pizza, hot dog con cipolla o senza, biglietti per Broadway, biglietti per club privati, altri meno privati. Tutti ambulanti. Tutti pronti, tutti a fare qualcosa.
Eppure sono certa di aver gia` incontrato qualcuno due volte, sebbene l`improbabilita` del fatto in una Citta` cosi` immensa. Come quel signore con il cappello blu, che ha girato l`angolo alla fine della 23esima, proseguendo verso Sud la settimana scorsa. L`ho incontrato oggi, mentre percorrevo la Bowery. Mi ha sorriso, come si sorride ad un vicino di casa.

Alla fine non sembra tutto cosi` casuale come le luci ci fanno credere. C`e` un bel criterio complesso che si crea man mano che si accetta la Citta` come un grande Monopoli o Gioco dell`Oca. E numeri binari al posto dei dadi.

 


Ora la smetto, mi aspetta ancora un piatto di minestra in scatola (ora in pentola). Ceci, pasta e porro, che qualcuno molto gentilmente mi ha preparato come alternativa alla colazione che ho mancato.

Penso all`Italia a volte.  Forse meno di voi che ci abitate, ma non la riconoscete piu`, ma giuro. Manca.

 

 

[Casa di S. L. R. New Jersey, 2013]

#1

#DECINE
Luglio, Luglio,
sii gentile e dammi il tempo per accumulare una decina di cose insieme. Una alla volta va benissimo, una al giorno. 

 

Non viene considerata la pazienza,

la maestria nel creare coreografie di cartone su altro cartone,

non viene più nemmeno criticata l’andatura, ammirato il passo spedito,

la città si crede piccina, si veste di verde, colora le gonne delle sue abitanti e fa crescere i baffi e le barbe agli uomini.

Le pozzanghere a terra hanno da ridire sul colore della pioggia. Nel Central Park ci si sente a casa quanto sulla cinquantaquattresima,

Linea C, intere folle scendono alla fermata prima di Wall Street, lavoratori che forse hanno bisogno di sgranchirsi le gambe prima di sedersi davanti al proprio Mac.

Produttori, spazzini, commercialisti, insegnanti, disoccupati, camerieri in infradito e politici.

Li guardo, mi immagino ancora più parte di quella Domenica pomeriggio, anche se già ci sono dentro.

Accanto a me, al semaforo, la gente mangia il proprio pranzo in vaschetta, apre e chiude il quotidiano, guarda in alto, avanti, sbatte le ciglia per la polvere,

la sorpresa, la stanchezza. Siamo fermi sulle strisce, pronti per partire, scatta il Bianco,

per noi su due piedi è il via.

Ho ripreso a contare i secondi per attraversarle, le Street e le Avenue. Undici, in qualsiasi caso.

 

Il trenta giugno è la metà dell’anno, ed è un po’ come giungere alla fine del primo capitolo.

Davanti alle scuole chiuse continuano a tagliare l’erba. Dormo con la finestra aperta da una settimana, la nuvola Tropicale di umidità ha fagocitato la Long Island.

Mi piace, non è l’umido Italiano, quello che ti si appiccica addosso – è proprio un vento acquoso, che non facendoti respirare ti lascia una sensazione di fresco sulla pelle.

Immune ne è la Città dove i grattacieli riparano dal sole abbracciandoti tra pareti di vetro e cemento bollenti.

Il trenta giugno mi dice che siamo al cinquantapercento. Sei mesi sono scivolati, e con loro le coniugazioni, i gerundi e il participi, di qualsiasi tipo.

In spiaggia, con la sabbia di vetro tra ogni giuntura, le onde a rendere l’Oceano bianco, i bambini senza fretta, mamme con meno tempo, coppie, jeep dalle grandi ruote.

 

Non viene considerata la pazienza, quella impiegata per rendersi conto di essere a casa un po’ ovunque.

Sui marciapiedi, a fine giugno duemilaetredici, vendono Avocado, pesche e magliette I cuore New York,

hanno calze a righe, impermeabili gialli, ombrelli aperti ancora prima di sapere che pioverà, se pioverà.

Turisti sui Bus rossi e gialli a due piani scattano foto ad altri turisti, i taxi superano altri taxi.

China Town non è mai stata così viva e a pensarci mi vien voglia di tornare a casa in Italia, prendere per mano tutti coloro che si sono rifiutati di assaggiare involtini primavera e anatre laccate

e portarli a mangiare al Jing Fong Restaurant sulla Elizabeth St. Offrirei io, la prima sera.

Gli abitanti della Grande Mela si mescolano tra loro, non si conoscono ma si riconoscono. Fanno finta di non avere tempo, evitano il centro dei marciapiedi e Times Square.

Si nascondono nei parchi o nei Deli, dopo essere usciti dagli uffici, cantieri, laboratori.
Pagano i Cinema dietro casa ed evitano Broadway perchè il denaro è tempo.

I grattacieli più alti, per loro, resteranno sempre quelli dell’Undici Settembre.

Entrano negli Starbucks, escono dalle metro, vivono nel Bronx e lavorano a Manhattan, fumano di nascosto dai figli, non si lamentano dell’aria condizionata nei treni, uffici e negozi. Piuttosto hanno tutti un maglioncino in borsa, una confezione di fazzoletti e le donne, quelle si, sempre un rossetto.

Li accomuna la voglia di restare dove sono.

#6

Questa mattina dovevo andare a consegnare un assegno di venti dollari al bowling del paese accanto. Vallo a chiamare paese poi. Una strada, negozi da entrambe le parti e attorno case in ordine geometrico come decorazioni persiane sui tappeti.
Il bowling si trovava al centro di una rotonda immensa, dove le macchine dovevano fare il giro di trecentosessanta gradi almeno due volte prima di imboccare l’entrata giusta. E pure contromano.

Prima di salutare il commesso addetto ai birilli e agli scarponcini dai lacci fluorescenti gli ho chiesto come mai il locale fosse stato costruito in un posto così
come dire,
inusuale.

La storia è più o meno questa:  molto tempo fa non c’era nulla su questa parte di Isola, poi qualcuno ha iniziato a chiedersi se non era il caso di animare un po’ quella zona, affacciata sulla Baia Oceanica. La gente si sentiva un po’ isolata e dimenticata, distante dalla grande New York. Un negozio c’era in effetti. Market-Office, lo chiamavano. Fungeva da poste, bar, pub e alimentari.
A volte pure da consultorio. Così, ad un certo punto, gli abitanti della piccola località balneare hanno raccolto i fondi necessari per costruire un teatro. Le pratiche andarono avanti per un po’, ed alla fine la mentalità vinse sulla cultura. Il bowling fu costruito in qualche mese e alcune poltroncine rosse vennero salvate prima ancora di essere scartate dai propri involucri di nylon e sistemate al suo interno in ricordo di un’idea.
Da quel momento in poi nel giro di tre miglia sono sorti molti nuovi edifici. Outlet, farmacie, palestre e cinema. Le persone dei paesini accanto hanno iniziato a spostarsi verso quel centro così avanzato e all’avanguardia
ed in seguito è stato necessario far passare nuove strade per collegare la cittadina alle località più piccole. Il bowling finì proprio al centro di una rotonda. In realtà avrebbe dovuto essere demolito, ma la gente protestò fino a che gli ingegneri non si arresero e lo inglobarono all’interno della grande giostra per automobilisti.

La storia è al limite del credibile, ma ora sostituite in ordine le parole in corsivo con:
Quindici anni fa
il sindaco del paese
nel 1998
qualcosa come due anni
Dal 2000 in poi
dieci anni fa

Ora mi sento meno giovane e con un’incredibile voglia di collezionare qualsiasi cosa che abbia più della mia età.

 

sConfronti #1

Dieci giorni su quest’enorme Isola, alla quale non sento ancora di dare del Tu.

C’è un rapporto di cortesia tra me e ciò che mi circonda. Sentirmi rispondere benvenuto ad ogni thank you mi fa sorridere. Presto smetterò di tradurre letteralmente.

Ci sto provando a socializzare in inglese con il vicinato, ce la sto davvero mettendo tutta, ma al massimo passo per timida. La ragazza italiana che porta a spasso cani e bambini al guinzaglio e in bicicletta, contemporaneamente.

Sarà il freddo salato, la neve alta tre metri accatastata ai bordi delle strade, i trecento grammi di pasta condita con salsa di soia. I ristoranti americani sono delle specie di fast food italiani con una tappezzeria più cartacea e le tovagliette colorate. È una nazione così giovane. Paragonabile alla mattina post-nottata-alcolica.

Sta in piedi grazie a quelli come noi che -generalizzo- la guardano da lontano con occhi sognanti. Vi vorrei tutti qui, voi che sospirate, a provare il bacon surgelato per colazione e la pizza al parmigiano il venerdì sera. Porterei per mano qualsiasi europeo per le corsie di questi supermercati, a cercare insieme a me del pane fresco o della pasta, non di soia. E meno male che non esiste l’espresso, qui. I caffè sono in taglia unica, grande tipo tisana, e favoriscono le relationship, la base dell’enorme palafitta che è l’America. Con il nostro macchiato italiano qui si fermerebbero al How are you? .

Ieri sono finalmente stata in West Hampton. Mi sono soffermata davanti ad una libreria, dopo aver comprato del pollo e pretzel per cena. Un Roth impolverato mi fissava dalla vetrina. Non oggi, mi sono detta, ricordandomi della macchina in seconda fila. Poi sono entrata e l’ho comprato. Al mio ritorno ho trovato il veicolo spostato di un paio di metri avanti, ho fatto il giro del mezzo: niente graffi ne ammaccature da nessun lato.

Oggi invece siamo stati ad accarezzare le razze all’Acquario. C’è proprio una zona, nell’Acquario comunale, adibita a questa attività che diverte da entrambe le parti. Mangiano sardine, gamberetti. Poi si fanno fare i grattini sul muso. E i bambini restano a fissare gli adulti che ridacchiano mentre scorrono i palmi delle mani sul dorso di quei strani pesci. A proposito, mi è stato detto che Long Island assomiglia ad un pesce geograficamente. Ho aspettato tutto il pomeriggio per correre in camera, aprire Google Maps e verificare che sì, è così.

Ed è esattamente la terza Isola a forma di pesce che mi fa da casa.

A nudo, finalmente sotto la doccia nella periferia di New York

Sarai felice di sapere che avrai una camera tua, sempre con letto a due piazze e qualcosa in più, un armadio, pavimento in legno, ah e sì, anche un bagno privato. E se canto non si sente, così hanno detto. Stai attenta, la porta del frigo cigola. Di notte ti potrebbero sentire.

Gli intonaci bianchi, i battiscopa in legno, la lampada in vetro smerigliato sul comodino mogano. E questo profumo di Casa che si sparge ovunque ovunque ovunque. Non che vada pazza per l’arredo vintage-legnoso, ma ha un che di accogliente perfino il comodino per i calzini.

Da quanto non sentivo il fresco odore di spazio?
Sono finalmente arrivata a destinazione. Oltre New York, in una cittadina a sud della Long Island, dove da dietro un metro di neve mi ha accolto il nuovo Host Dad, nonché papà dei due bimbi dei quali mi occuperò.

Sorridente, con un andazzo da “ehi-ho-appena-assaggiato-un-cabernet-pazzesco” ed un inglese scandito a piccoli pezzetti chiari e tondi, mi ha fatto una tra le buffe impressioni di Americano.
Abbiamo aspettato la valigia, che puntualmente è arrivata sul nastro, insieme a quelle degli altri venti passeggeri.
Ebbene sì, dopo lo scalo a Philadelphia sono salita su un aereo non più grande di un autobus extraurbano. Per un attimo, prima di accedere alla cabina, mi sono immaginata in prima classe, con pantofole morbide e mascherina, quasi fosse un jet privato per quelli come me che cambiano aria, invece mi sono ritrovata attaccata al finestrino, soppressa da una simpatica signora in maglione Ciano-Cielo di almeno un centinaio di chili, ma con la quale ho
scambiato le più piacevoli chiacchiere delle ultime quattro settimane. Le apparenze non ingannano: tanta sostanza, eccetera eccetera.

Sulla via verso la nuova casa le strade erano completamente gelate, bianche e soprattutto a due corsie. Evviva! Niente più immaginario terrore su quelle a sei di Seattle (che comunque non ho mai fatto in macchina, ma al solo pensiero rabbrividivo).

E qui mi fermo, prendo aria, da dove comincio? Si i(n)spira dalla bocca o dal naso?

Thè Verde. E attorno il nuovo mondo.

Per prima cosa le mie mani. Mani che hanno portato centinaia di cestini della lavanderia, alzato creature piangenti post-nanna, mescolato pappette, aperto e chiuso forni a microonde con biberon da scaldare, mani lavate ancora e ancora dopo aver cambiato pannolini, fatto da mangiare. Non contemporaneamente. Quasi trenta giorni, tutti visibili tra le crepe sulle nocche e polpastrelli. Carini i mignoli in particolare, così paffuti e storti ora.

Dopo le mani, un mobilio comprensivo di pianoforte nero a coda, tavolo di marmo in puro American style in cucina e un paio di Host Parents super busy attorno, a tagliarmi fettine di formaggio al caffè (italiano?) sul tagliere in ciliegio.

Oltre: i muri. Finalmente di cartone più resistente. La casa di per se sembra un castello color crema in miniatura. Come fiocchi, a decorarlo, cornicioni a sbuffo e tegole policrome viola-rosso-mogano-viola e così via.

Oltre ancora: la mia stanza. Questa mattina alle sette e mezza i bimbi, travestiti da ninja, sono saltati in camera di soppiatto. Non ci conoscevamo ancora, ma abbiamo lottato sullo stipite, io armata di cuscino e loro di ganasce in plastica. Ha vinto la Host Mom, entrando e trascinandoseli via per le caviglie. Perchè? Ci stavamo divertendo, al diamine la mia privacy.
Quindi ho tolto il pigiama, messo jeans e maglietta e ho respirato. Tanto ma tanto.

Ora che potevo permettermi di far rumore e annaspare.