Quotidiario #31

Avrei voluto concludere il mese e questo diario giornaliero facendo una cernita, che bella parola che è cernita, delle cose che mi erano sfuggite in trenta giorni. Del tipo che mai ho scritto che ho letto soltanto quattro libri questo mese, un po’ pochino rispetto a luglio, o che la mia paga é di sei euro e mezzo all’ora o ancora che mia sorella ha iniziato a fare video su YouTube. Mi sarebbe piaciuto anche riuscire ad inserire foto o, che ne so, disegni fatti, raccontare di quanto è bello non solo attendere l’autunno ma anche assorbire più estate possibile. Non la schifo mica io, l’estate, nonostante l’afa insopportabile che ho trasudato da ogni mio post precedente, mi pare. Invece ora mi sembra inutile, che tanto quello che doveva succedere in un mese di certo non è appallottolabile in un giorno. Soprattutto se poi capita che in un giorno solo, le cose cambino come nemmeno un mese potrebbe fare.
Ecco, é successa questa cosa e non sono nemmeno in grado di spiegarlo.

Domani non accadrà nulla invece (se non che la nonna, la stessa che vent’anni fa mi portava in giro con guinzaglio e pettorina per il rione della città, compie niente popò di meno che 75 anni).
Riprenderò a pubblicare, forse quotidianamente, il due, dopodomani.
Buonanotte chiunque legga o abbia letto il Quotidiario di sta cippa.
Davvero, andate a letto che é lunedì sera.

Quotidiario #30

Che paura questa mattina, alle tre del pomeriggio, quando sono uscita a fare la spesa. Mi ero svegliata da poco, un’altra notte insonne, ma ormai va bene così che si sono abituati tutti, pure io. Il paese era deserto, nemmeno il panificio era aperto. E c’era questo autobus blu, all’incrocio dove si fermano gli autobus, dal quale scendevano i turisti con le camice colorate e i cappellini gialli, i zainetti. Ho fatto il giro del quartiere e sono tornata indietro ed erano una quarantina, tutti colorati, qualcuno con la cartina in mano. Si guardavano attorno stupiti, loro sotto il caldo, l’afa di fine agosto a farli sudare. Il supermercato era chiuso, il panificio pure, i negozi di costumi, la gioielleria, la pizzeria, tutti chiusi. Man mano che mi avvicinavo, dovevo girare lì all’incrocio, ho visto le loro espressioni più che smarrite, tristi. Uno di loro, un signore sulla sessantina, ha chiesto alla guida perché non ci fosse nessuno in giro e la guida, in un’inglese molto italiano ha risposto Because is Sunday and Sunday is the freedom day. Il giorno della libertà? Al di là della grammatica, a pensarci a come tutti ambiscano al lavoro per poi sognare le ferie sembra quasi che lavorare sia un controsenso subordinato. Uh che parole mi vengono in mente, mi sono detta. Lavorare per essere liberi di non lavorare, non lavorare e cercare un lavoro disperatamente e cose così, che si mordono la coda a vicenda e non solo la propria.
Poi vabbè, c’era poco da fare, ho steso i panni e rimesso in ordine alcuni file per il montaggio che dovrò iniziare a fare domani. In casa abbiamo due coinquilini in più da giovedì. Non li vedo mai, se non nel momento in cui voglio andare a fare una doccia ed il bagno é sempre occupato. La lavatrice l’ho rimandata per giorni fino a che stanotte alle quattro ho portato il cesto e messo a lavare il tutto in grande velocità nonostante tutti dormissero e non ci fosse nessuno ad attendere il proprio turno per la pipì. Che bella sensazione essere in bagno e sapere di avere non solo tempo per il bagno stesso, ma anche per guardare l’oblò della lavatrice con le bolle e i vestiti che girano dentro.

Domani è l’ultimo giorno di Quotidiario, ho pensato che, dopodomani, dovrò forse abituarmi a non avere più una sveglia interna biologica, che tra le sette di sera e mezzanotte continua a suonare in sordina come a ricordarmi che anche oggi di cose ne sono accadute, é ora di annotarle.
A partire da Settembre facciamo che apro una rubrichina piccina, un po’ come faccio su Instagram da Gennaio pubblicando una foto al giorno. Solo che qui potrei metterci un illustrazione al giorno o un libro al giorno. O ancora un outfit al giorno, ma questa cosa di vestirsi e far vedere per forza il ragionamento che c’è stato dietro, mah, non mi entusiasma. Sarà che in armadio ho si e no cinque magliette e un paio di pantaloncini e vestiti da mare che uso anche per andare a lavoro. Quindi no, non funzionerebbe.
Forse va a finire, o iniziare, che non faccio nemmeno nulla, o forse si. Ci penso, va bene?

Quotidiario #29

C’è un posto, e dico c’è perché c’è sicuramente tutt’ora, insomma dove a passarci ogni volta mi veniva da accostare la macchina, scendere e scavalcare la rete a bordo strada. Era un campo che si estendeva tanto in lunghezza quanto in profondità, l’unico diverso tra i campi di granoturco e pomodori. Mi venivano i brividi, quelli belli, ad immaginarmi mentre scavalco o faccio un buco in quella rete, per poi ritrovarmi dall’altra parte, tra i filari di pesche. Questo posto esiste tra Ronkonkoma e New York, sulla Long Island. Avevo visto gli alberi spogli a febbraio riempirsi di fiori a fine aprile per poi esplodere nel verde per tutta l’estate. Tra le foglie intravedevo le pesche, magari aprivo il finestrino, rallentavo un po’ se non avevo dietro nessuna macchina. In quel periodo facevo questa cosa che non potevo fare, che era andare da dove abitavo fino a Ronkonkoma, lasciare lì la macchina e in meno di un’ora raggiungere la Penn Station di New York in treno. Non avrei potuto farlo perché mi era stato detto che la macchina che guidavo aveva dei problemi con le lunghe distanze (infatti poi qualche settimana dopo persi una ruota al semaforo), ma mi piaceva troppo far benzina, guidare tra quattro corsie, seguire con lo sguardo pannocchie, pomodori E poi loro, le pesche. Arrivavo a Ronkonkoma, parcheggiavo e salivo sul treno come una comune abitante lavoratrice di quel posto che era l’America.
Comunque tutto ciò per dire che, poi, tra quei peschi ci sono finita a fine estate. C’era un cartello che si intravedeva tra i rami, l’ho notato più o meno a fine primavera. Come and get your peaches from the tree, c’era scritto. Così un fine settimana che ero libera portai un amico in quella che si rivelò essere una farm, una fattoria. Raccogliemmo pesche bianche, gialle e rosa, riempimmo tre buste fino a farle quasi scoppiare e pagammo la modica cifra di 10 dollari per l’espatrio con il bottino. Pezzo unico. Ce le portammo in spiaggia e mangiammo pane, pesche e formaggio guardando i surfisti di Blue Point. Avevo svelato quello che c’era al di là della rete ma nel corso dei giorni non ero riuscita a finire tutta la frutta portata a casa dalla raccolta di quel pomeriggio. Non erano più buone, si vedeva, ma a guardarle nel cestino tra un cartone del latte e i limoni spremuti mi metteva una sensazione di finito addosso, come se la situazione mi stesse sfuggendo di mano del tutto e non si potesse tornare indietro, una cosa stupida e per questo inspiegabile. Le raccolsi una a una, di nuovo nel sacchetto, e corsi in spiaggia. Al buio le lasciai sulla riva, l’alta marea di notte le avrebbe portate via.
Smisi di usare la macchina se non per andare a lavoro e al college o a bere un caffè a Westhampton. Qualcosa si era spezzato, ma non faceva male. Soltanto non esisteva più l’idea che ci fosse chissà cosa dietro quelle file di alberi da frutta. C’erano solo altri alberi da frutta, dietro gli alberi da frutta.
Due anni dopo, a cinquemila chilometri dallo stato di New York, guardavo con il cuore in gola attraverso le maglie di una rete una distesa di viti, coprivano il terreno fino al mare e non se ne vedeva il confine. Una proprietà enorme, due casette in pietra, un mini anfiteatro nascosto dagli alberi. Guardai bene, non vedevo peschi nei dintorni, ma l’uva era matura.

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Quotidiario #27

Succede che sta per finire agosto e se c’è una cosa della quale posso veramente ritenermi soddisfatta, fino ad oggi che è il ventisette, é che non c’è un giorno di questo corrente mese che mi sia sfuggito qualcosa. Qualcosa che non riesca a farmi tornare a mente. Ricordo quasi tutto, o perlomeno una gran parte delle cose che sono accadute negli scorsi ventisei giorni. Per esempio un giorno sono stata al mare non lontano da dove abito e tirava tanto di quel vento che si stava meglio in acqua che fuori. Poi dal giorno dopo era come se fosse arrivato l’autunno, come se il vento avesse portato via lo scirocco stesso, ecco, questa cosa qui è accaduta l’undici di agosto.
Poi il ventitré, invece, alle tre di mattina, seduti sul marciapiede ancora umido di pioggia, a gambe incrociate mangiavamo un cornetto con -No. -No è un mio amico notturno come me, mi verrebbe da dire, o forse sono io che mi sono adattata bene al buio con lui che non ha sonno. Con -No, trattino enne o, a volte passeggiamo per le vie con le case basse o la costa fino a che l’orologio del campanile batte le tre o le quattro. Due volte è successo addirittura di arrivare alle cinque, fortuna che inizio a lavorare nel pomeriggio, io.
Si va al mare se non c’è vento, oppure si sale verso la parte alta del paese a cercare alberi da frutta o cespugli con more selvatiche, si parla poco, spesso solo di cose accadute o che vorremmo accadessero. Di libri, film, viaggi e quasi mai di persone attorno a noi. Niente ragionamenti filo-filosofici, cinismi, giri di parole che di solito vengono a galla dopo una giornata passata tra la gente, quando si vuole dire tutto come lo si pensa e avere pure ragione. Niente sfide su chi ne sa di più, con -No. Io gli dico È perché non sei capace di lamentarti, tu. E -No ride, allarga le braccia o alza le spalle. Che bello.

Poi certe notti capita che porto giù qualcosa da mangiare, da casa, allora ci si siede e si mangia uva, pesche e frutta che si sbuccia, albicocche, quando c’erano.
Non ricordo una sera, con -No, senza frutta.

Ne ricordo molte invece in cui guardiamo tornare i reduci delle serate nei locali e discoteche. E noi sulla panchina ad accumulare noccioli, bucce e ore di sonno perso, da smaltire dormendo due ore in più la mattina. Non si discute, con lui, che ad Agosto sia più bella ed efficace la notte rispetto le mattine afose e affollate di turisti. Poi mi sono abituata a leggere, disegnare o tradurre mentre fuori è buio e a casa tutti dormono, il fatto che non ci sia nessuno sveglio attorno mi da una sensazione di tempo guadagnato che a spiegarla parole, perdo solo tempo, qui.

Quotidiario #24_25

Ho fatto un altro di quei sogni strani. Ho sognato la neve a Nashville. Era agosto e aveva nevicato nel Tennessee.

Tra le cose reali invece, ieri sera, sono stata ad un evento, era la seconda vola che ci andavo. Organizzato dall’altra parte dell’isola d’Elba, per arrivarci ci abbiamo messo un’ora, con i fulmini e i nuvoloni alle spalle e lo scirocco ad inumidirci. Il giro dell’isola per assistere all’ultimo di una serie di concerti in un mini anfiteatro, dentro un bosco, dentro una casa sul mare, dentro una proprietà protetta e intoccabile dall’edilizia. Intoccabile, nel senso che l’attuale proprietario ci ha messo decenni per tirare fuori le casette in pietra abbandonate nell’ottocento, a ripulire da erbacce e cacciare via o addomesticare cinghiali e ora guai a chi si azzarda a toccare anche un solo eucalipto. Lì ci sono vigneti in discesa (o in salita, a seconda del punto di vista) e in lontananza una Corsica vedo-non-vedo. Darei le mie mani all’agricoltura per poter lavorare e vivere in quel posto e, se potessi rinunciare a qualcosa in cambio della mia permanenza lì, probabilmente, Baratterei una decina di anni della mia vita in cambio di una reclusione a Campo Lo Feno.
Nel frattempo continuo ad aprire e chiudere la libreria al solito orario. Scrivo, traduco, mangio, stendo i panni e dormo poco per stare sveglia di più. Poi mi sono accorta che in camera è un po’ troppo buio. Sto accumulando torri di libri tutti da una parte della scrivania, tanto che coprono la luce che dovrebbe entrare dalla finestra. Sarà meglio che faccia qualcosa, che non mi viene neanche voglia di torn arci, a casa, per cena mangiare sulla scrivania con tutta quell’ombra.

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Quotidiario #23

A guardare i filmini con i bimbi, i loro genitori, altri genitori che non c’entrano nulla con i protagonisti di quel filmino, io starei ore. Mi piacciono i dettagli e le cose in primo piano, mi piace l’attenzione che ci mette chi filma, il modo in cui attentamente mette a fuoco o sposta l’inquadratura da una cosa all’altra. Farei proprio una terapia d’urto, questa dei filmini d’infanzia. Non miei, io non ne ho.
Io da piccola, nel 94 per esempio, nemmeno lo sapevo che si potesse avere in mano qualcosa con i tasti diverso dal telecomando della tv. Mia nonna mi metteva sul letto, sprofondavo tra i cuscini e i giocattoli di stoffa che mi cuciva e guardavo in loop il Re Leone in inglese con il doppiaggio mono-voce sopra. E i sottotitoli in turco sotto. Che poi, non so perché erano in turco, non leggevo nel 94, è mia nonna che ogni volta mi diceva che a forza di guardare sempre la stessa cassetta finiva che imparavo a leggere il turco e allora pensavo che era turco, quello scritto in sovrimpressione. E insomma, di filmini a me da piccola non ne hanno fatti, ce ne sono giusto un paio con mia sorella a due anni, del 2003 tre forse, e io intorno che saltello, cerco di entrare nello quadratura, faccio le boccacce e cose così. Una bambina con i capelli tagliati a caschetto, i gomiti sporgenti e sbucciati, le ginocchia non é che si consumassero tanto quanto i gomiti, ricordo. Niente di particolare, se non una macchina violacea sulla coscia sinistra. Ci sono nata con quella voglia, é cresciuta con me, mia nonna la nascondeva con un angolo della coperta azzurra nella quale mi portava fuori nel primo mio primo anno. La nascondeva perché tutti facevano domande nel quartiere, le vicine scendevano giù dal condominio quando vedevano mia nonna con me in braccio. La mamma dov’è? Torna. Com’è piccola, troppo piccola, mangia? Chissà che rispondeva lei. Perché se mancava il papà, e mancava, era normale. Tutti i papà prima o poi venivano a mancare nell’ex Unione Sovietica, ma anche non ex. Le mamma c’erano, la mia c’era e non c’era. Partiva e tornava. Poi, alla fine, non so se sia rimasta io con lei o lei con me. Ora c’è.
Che ne sapevo io che nascere di appena due chili e mezzo, senza incubatrici e con la politica del latte in polvere, fosse un peso per chi quei due chili e mezzo lì vorrebbe farli diventare tre, quattro, dieci, veder sbucare i dentini e le trecce, a quei due chili e mezzo. Vedere perfino le ginocchia sbucciate sarebbe stato bellissimo e chissenefrega della gamba, deve aver pensato mia nonna la primavera che iniziai a camminare. Mi mise un paio di pantaloncini, mi tolse la pettorina (portavo la pettorina con una targhetta perché tutti i bambini la portavano, sia mai che cascassero nel canale di scolo) e le vicine all’inizio venivano da lei, dalla nonna, a dirle che mi ero fatta male, che avevo una macchia sulla coscia, che doveva stare attenta. Ma mica va via, rispondeva lei riferendosi alla macchia e non a me che correvo già attraverso il campo di cotone oltre la strada.
Io, se mi ricordo tutto questo lo devo anche a chi stasera, davanti ad un piatto di pasta in rosso e i piedi stesi sul divano-letto, mi ha fatto vedere i propri di filmini dell’inizio degli anni novanta. Lì c’erano papà e mamme con telecamera in mano, un bimbo paffutello, la sabbia, il mare, i costumi a vita alta, gli amici ventenni che sembravano grandi grandi e case in costruzione, futuri in costruzione. Mi sono sentita di esserci anch’io.

Quotidiario #22

Oggi mi sono svegliata con un senso di incompiuto che é una meraviglia. Tanto valeva svegliarsi vestita. Sembrava che non fossi neanche andata a letto. Un giorno lungo un giorno, una notte e una mattina.
Non mi andava nemmeno di prendere il caffè, l’ho preso lo stesso per abitudine e ho pedalato verso la libreria. C’è stato tanto di quel movimento in negozio, che la prima volta che ho guardato l’orologio era già l’una, spaccata. É passata pure una signora che ho scoperto poi, parlandoci, essere del Connecticut. Connecticut! A due passi dalla Long Island, che nostalgia. Poi il pomeriggio ho dormito un’ora, dopo aver fotografato dal terrazzo i mille mila teli colorati che Amedeo aveva stesa dal suo, di terrazzo. Erano davvero tantissimi, una decina forse, tutti con motivi geometrici, elefanti, stelle marine e cose così, sull’orientale andante. Mi sono addormentata per un’ora e mi sembrava di esserci in mezzo a tutte quelle stoffe, un viaggio praticamente.
Adesso che è sera posso dire che é stata una delle giornate più belle e tranquille della stagione, nonostante oggi io abbia coperto pure il turno della mia collega. Anzi, è iniziato tutto ieri sera, quando davanti la libreria un amico si è messo a suonare la chitarra. Si è riunita un po’ di gente oltre i soliti ragazzi della libreria, di questi soliti qui sotto ci sta Edo. Disegnare con il dito sul tablet è una di quelle cose che ho rivalutato, in positivo. Un po’ come la salsa di soia, l’aranciata mischiata alla Coca-Cola e i calzini ricuciti dopo che si è formato un buco sull’alluce.

 

Quotidiario #20

Anche oggi per parlare di oggi ho bisogno di parlare di ieri, che poi, ora, é già oggi.
Ho chiuso la libreria all’una di notte, quasi come ogni notte. Funziona così qui, finché c’è passaggio di gente si tengono aperte le porte. Sono passati due miei amici a prendermi, siamo andati a bere due birre in tre, le abbiamo bevute mentre giocavamo ad un giochino con le parole. È come in tv, mi hanno detto i miei amici, ma io non sapevo mica come era in tv, che non ce l’ho la tv da anni. Allora mi hanno spiegato il gioco: si scelgono due parole che abbiano un nesso con la terza, di parola, e della quale bisogna dire solo la prima lettera. Allora ho detto “abitazione”, “parte del viso” e “A”. Uno dei miei amici ha battuto il pugno sul tavolo dicendo che non valevano le frasi o definizioni. Ad ogni modo la parola centrale era “Appartamento”. Allora abbiamo giocato per po’ e io facevo la parte di quella che indovinava, ma non indovinavo quasi mai e sul grafico dei punti non avevo punti. Alla fine mi sembrava di aver capito, allora ho detto “pannolino”, “pavimento” e “B” e per un quarto d’ora ho tenuto impegnati i miei amici che tra un tentativo è l’altro continuavano a non credere che avessi capito il gioco, scuotevano la testa chiedendomi se quella B fosse davvero una parola sola o l’inizio di una frase, che se era una frase non valeva mica eccetera.
Poi ho ricevuto un messaggio con scritto “piove (?!)” che poteva voler dire tutto e niente e ho risposto “non piove”, mi sono girata e pioveva. Erano quasi le tre, ci siamo alzati, ho preso la bici e salutato i due amici.

“Allora qual è la parola di mezzo?”
“Bagnato”
“…”

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Quotidiario #19

Oggi, verso le 19

Cliente: “Senti bionda…”
Io: “Bionda?”
C: “Io chiamo tutti bionda o Giovanni.”
Io: “Giovanni va benissimo.”

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Oggi è una di quelle giornate che fanno da eccezione, non confermando la regola però. Perché fino ad ora non è successo nulla di che a parte il caffè delle cinque nel bar pieno di alberi, proprio un bel posto. Ieri poi ho scoperto che sono diventata dipendente dalla caffeina. Prima non lo sapevo, ora lo so con certezza. È che mi sale una tristezza quando sento un principio di emicrania verso le undici di mattina, se mi scordo di prendere il caffè. Lo prendo, cinque minuti e passa tutto. Un po’ di malumore rimane, ma fa parte delle clausole mi sa.

[Comunque, a volte mi chiedo io, ci sarà ancora qualcuno che legge sta roba che scrivo qui?]

Quotidiario #18

Mi sono accorta che da quando ho iniziato, il primo agosto, ad annotare qualcosa ogni giorno, non riesco a stare dietro alle cose che accadono. Mica male, è che sono tante, ne accadono una marea, di giorno, di notte, tutti i giorni. Ma come ho fatto ad annoiarmi a luglio, certi pomeriggi che mi sentivo proprio con una leggerezza inutile addosso e le cose smettevano di accadere? Non so, sta cosa qui che per far succedere gli eventi bisogna prima elaborarli uno alla volta, scriverli, una specie di processo inverso della digestione, ancora non ho ben capito come funziona, ma funziona.
Ah, oggi poi piove di nuovo per finta. Inizia, smette, inizia di nuovo, smette. Inizia per smettere insomma.

 

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Quotidiario #17

È arrivato l’autunno, ma nessuno se n’è accorto mi sa, meglio così. Lo dico qui e poi basta, magari ci si rivede più tardi tra qualche mese, a parlarne. Due cose, quindi, che solo a pensare che non ci sarà più l’afa soffocante di luglio e l’umidità di inizio agosto mi viene da fare le capriole in aria, aria fresca finalmente, altro che scrivere stando seduta ad una scrivania sotto una lampadina da 40 watt. Prima cosa, quindi: ho iniziato un libro, giorni fa, Mio salmone domestico, si chiama, ed è stato assemblato, ehm, scritto (probabilmente da una cernita di pensieri più o meno articolati a pur sempre folli) da Emmanuela Carbè. Ora la differenza tra crescere e invecchiare mi è più chiara, ma resto comunque dell’idea che è meglio rimanere un po’ vaghi sul tema. Dire che mi piaccia quello che racconta, però, è come elogiare la caffeina nel caffè, sorvolando il suo sapore. Poi magari quando lo finisco ci scrivo altre due righe a riguardo. Come seconda cosa invece metto qui sotto quel sogno che ho fatto la notte precedente alla scorsa, quello che ho mandato a mia mamma appena sveglia, che c’era anche lei ad un certo punto. Ah, non mi ha più risposto poi, abbiamo parlato di corsi di inglese online, quando mi ha chiamata oggi, peccato.

Questa mattina mi sono svegliata con il vivido ricordo di un sogno in cui chiedevo in un negozio canadese un paio di scarpe da ginnastica e ricevevo da provare un paio di scarpe che proprio non piacevano, così ne chiedevo un altro modello e mi veniva data una forma di pane, tipo la ciabatta e io la guardavo e pensavo, ecco, perfetta la ciabatta, non proprio da ginnastica, ma sicuramente comoda. Poi, poco più tardi mi sono sognata casa mia, quella inFriuli con i genitori e la sorella dentro. Stavano restaurando casa, che già nella realtà non è piccola, nel sogno era proprio enorme, soprattutto il piano terra, con i cumuli di polvere da cantiere ovunque, il pavimento da rivestire e le pareti da imbiancare. Ho aperto una finestra a due ante, era un po’ buio e umido lì. Dava su un giardino con un vecchio muro ricoperto di edera e rose, in mezzo una porta , quasi un entrata senza porta, un arco senza arco, dava sul mare. Non avete mai visto che la vostra finestra dava sul mare? Ho chiesto a mia mamma, dopo averla fatta scendere dalla cucina. Ricordo che ha guardato stupita me, poi la finestra, poi ancora me, poi la finestra, ci si è avvicinata e senza girarsi ha sussurrato Non ho mai visto un tramonto sul mare dalla finestra di casa.

Tutto qui. Buonanotte.

Quotidiario #16

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Questa mattina quando mi sono svegliata come prima cosa ho annotato il sogno che avevo fatto. Si trattava di scarpe, pane e finestre che davano sul mare, c’era anche mia mamma tra tutto ciò, così appena ho finito di scrivere le ho mandato il sogno, che mi sembrava ancora vividissimo e quasi reale, via messaggio. Ho aspettato un po’, ha visualizzato, ma non mi ha risposto. Allora dopo mezz’ora l’ho chiamata e mi ha detto che l’avrebbe letto con calma dopo, che ora stavano preparando tutti il pranzo. Eppure non sono più di sette righe, ho pensato triste, che ci vorrà a leggere sette righe? Allora mi sono preparata il pranzo pure io, solo per me, come ogni giorno e alle tre sono scesa e risalita nell’altro condominio, quello di Amedeo. Ci eravamo messi d’accordo che con la nuova stoffa, acquistata giorni fa, avremmo fatto una maglietta o un top con spalline, per me. Così, per sperimentare. Mi ha preso le misure, tagliato i pezzi senza usare cartamodelli, messo in moto la macchina da cucire e dopo tre ore era uscita una cosa perfettamente a mia misura, che era una via di mezzo tra un tubino, un vestito e il girocollo alla canottiera. Una cosa che a metterci un nastro rosso sopra la vita e a farci il fiocco, sembravo un bomboniera ben riuscita. Erano le diciotto e mia mamma ancora non mi aveva richiamata.