#8

[Video: People Get Ready – Windy Cindy]

Le persone qui non ti viene neanche voglia di cambiarle,
(allontaniamoci un po’ dal solito “ah, questi dannati Americani non sono come noi”
soltanto a guardare da come camminano per strada.
Nessuno sembra abbia voglia di invertire direzione,

-vanno dritti-sparati, direbbe un italiano-

e piuttosto tu stesso
ti ritrovi a lavorare su te stesso,
girare su te stesso
e alla fine lasciare perdere,
perché a chi importa se quella mattina sei uscito in pigiama sotto la pioggia a comprare il latte
mentre, con il telefono in una mano, ti connettevi a mamma su Skype
e con l’altra componevi il codice della carta di credito su quegli aggeggi laser
che hanno piantato perfino sulle bancarelle-carriola. Di quelle che vendono corn-dog e zucchero filato ai lati del Central Park.
Ci strofini sopra la tua card e già ti hanno scalato i tuo dollaro e mezzo. Più tasse.
Non devi pensare a nulla, soltanto a come spendere un altro dollaro al prossimo angolo, fino a che la banca non ti chiede spiegazioni via mail o direttamente per telefono a proposito dei frequenti acquisti di importo così basso nella stessa giornata.
Si preoccupano insomma.

Ieri invece mi sono svegliata con il sole nei pressi di New York, dopo aver passato sette ore al Brooklyn Ferry Fest, agglomerato di concerti e artisti in un solo enorme Teatro a tre sale
(e che a mio parere farebbero la felicità di Paolo Pitorri, lui e la sua Fottuta Musica Alternativa che mi piace tanto).
Da rifare e rifare e rifare senza stufarsi e senza stufare.

Ogni giorno è il primo giorno di primavera e Brooklyn finalmente  ha iniziato a mandare a passeggio i suoi abitanti sotto i ciliegi,
i peschi e i peri fioriti
affacciati sulle strade e cresciuti in giardini circondati da muretti in mattoni.
Le mamme nere-nere stendono le lenzuola colorate sui fili legati da casa a casa.
Non ho ancora visto una sola fodera bianca in questo quartiere. E la cosa mi fa quasi solletico.
I bidoni della spazzatura sempre colmi, ma mai straripanti.
Prevalgono i bambini con i pattini a rotelle non in fila, ma a due a due. Le biciclette -senza rotelle- e le corde,
per saltare e finire dritti nelle perenni pozzanghere.
E li guardavo da un davanzale non mio, gomiti sul legno impolverato, quasi fosse il programma più bello,
Brooklyn
la domenica mattina in televisione.

A me tutto ciò ricorda casa, sebbene non abbia mai avuto un muretto in mattoni tutto mio, ne bambini con i quali giocare in strada.

Brooklyn è per me il mix perfetto tra la quantità di latte e cereali,
un numero di scarpe azzeccato al primo colpo
e il mare ritrovato nell’Oceano.
Dissocio questa parte di New York da qualsiasi idea mi sia fatta in precedenza su questa fettina di continente. Sarà che non ci sono piscine nei giardini, ma solo pochi metri quadrati di prato fiorito davanti ad ogni abitazione.
La gente non parla molto,
ma sul marciaede incrociandoti, saluta, se sorridi per primo.
La frenesia inesistente, seppur a poche fermate di Subway da Manhattan.

Io queste cose me le metterei tutte in tasca e le porterei in giro come scorta di serotonina,
da dividere pure.
Brooklyn mi fa vedere il meglio di se, senza vergogna
pur sapendo che non mi basta,
non mi basterà per rimanere qui.

 

#7

Bussa sempre alla mia porta,
ma non gli ho mai insegnato a farlo. Ho semplicemente mantenuto la tradizione che questa famiglia ha nei confronti degli ospiti dimostrandomi favorevole ai toc toc toc.
Apro la porta e sono sicura che farà un passetto indietro, come sempre. Ha solo sette anni, ma è un bambino che inconsciamente mi ha totalmente sballato l’idea di figliuolo-Americano.
Si copre la bocca con la mano se gli sfugge uno sbadiglio ed è capace di arrabbiarsi e prendere a calci il mobiletto dei dolci se arrabbiato.
Bussa alla mia porta per chiedere dei fogli di carta bianca che sa benissimo di poter trovare anche nella stampante al piano di sopra.
Inoltre mangia i muffins che gli preparo. E se ogni tanto escono bruciacchiati dal forno, me lo fa notare con delicatezza, non prima di avergli dato il secondo morso, come per conferma. Guarda la tv con la bocca aperta. Ne guarda tanta se non nascondo il telecomando.
In compenso all’aperto ci passerebbe delle ore. Ho sempre fatto fatica a riportarlo a casa e visto che non posso trascinarlo per le orecchie preferisco portarmi dietro i muffins da sgranocchiare ora che il tempo permette di stare fuori.
Più che un classico bambino di otto anni. Non ci vedo ‘ste strangerie che di solito caratterizzano i bimbi Americani.
Troppi film?

Oggi stavamo giocando dietro casa, sembrava estate ed eravamo scalzi sul prato (quello seminato qualche settimana fa e già diventato tappeto). Allenamento di lacrosse per lui, un po’ di sano movimento per me.
Ci stavamo divertendo e pure i cani correvano all’impazzata tra giardino e spiaggia. Poco più tardi decisi di fare una pausa e rientrare a prendere due gelati, ma per qualche strana inflessione della mia pronuncia -cruda, crudissima-
ci siamo intesi male
ed ha capito che gli stessi proponendo di rientrare in casa

a fare degli origami,

così all’istante ha lasciato a terra palla e racchetta urlando più che di gioia
OOOOOOH LET’S GO C’MON BABY!!!!
E ci stavano tutti e quattro, quei punti esclamativi.

Non ci sono aggettivi per lui, non si può descrivere un non-stereotipo.
Odia pure i fast food e la gelatina alla frutta.

#6

Questa mattina dovevo andare a consegnare un assegno di venti dollari al bowling del paese accanto. Vallo a chiamare paese poi. Una strada, negozi da entrambe le parti e attorno case in ordine geometrico come decorazioni persiane sui tappeti.
Il bowling si trovava al centro di una rotonda immensa, dove le macchine dovevano fare il giro di trecentosessanta gradi almeno due volte prima di imboccare l’entrata giusta. E pure contromano.

Prima di salutare il commesso addetto ai birilli e agli scarponcini dai lacci fluorescenti gli ho chiesto come mai il locale fosse stato costruito in un posto così
come dire,
inusuale.

La storia è più o meno questa:  molto tempo fa non c’era nulla su questa parte di Isola, poi qualcuno ha iniziato a chiedersi se non era il caso di animare un po’ quella zona, affacciata sulla Baia Oceanica. La gente si sentiva un po’ isolata e dimenticata, distante dalla grande New York. Un negozio c’era in effetti. Market-Office, lo chiamavano. Fungeva da poste, bar, pub e alimentari.
A volte pure da consultorio. Così, ad un certo punto, gli abitanti della piccola località balneare hanno raccolto i fondi necessari per costruire un teatro. Le pratiche andarono avanti per un po’, ed alla fine la mentalità vinse sulla cultura. Il bowling fu costruito in qualche mese e alcune poltroncine rosse vennero salvate prima ancora di essere scartate dai propri involucri di nylon e sistemate al suo interno in ricordo di un’idea.
Da quel momento in poi nel giro di tre miglia sono sorti molti nuovi edifici. Outlet, farmacie, palestre e cinema. Le persone dei paesini accanto hanno iniziato a spostarsi verso quel centro così avanzato e all’avanguardia
ed in seguito è stato necessario far passare nuove strade per collegare la cittadina alle località più piccole. Il bowling finì proprio al centro di una rotonda. In realtà avrebbe dovuto essere demolito, ma la gente protestò fino a che gli ingegneri non si arresero e lo inglobarono all’interno della grande giostra per automobilisti.

La storia è al limite del credibile, ma ora sostituite in ordine le parole in corsivo con:
Quindici anni fa
il sindaco del paese
nel 1998
qualcosa come due anni
Dal 2000 in poi
dieci anni fa

Ora mi sento meno giovane e con un’incredibile voglia di collezionare qualsiasi cosa che abbia più della mia età.

 

#5

[in foto: classici gabbiani testanera, virgole del North Carolina in  una qualsiasi giornata di Marzo.]

Quando le luci si spengono, i pavimenti smettono di rimbombare i passi dei piedini dei bambini szampettanti su e giù e per le scale,

quando inizio a sentire un cambio di intonazione nelle voci oltre il muro,
da interrogative passare a semplici affermazioni di qualche parola.
Qualcosa-qualcosa-silenzio
Qualcosa-silenzio
Silenzio grande
ed ancora qualcosa, non più lungo di una parola con una vocale. E basta.

Accade ogni sera. Ed è questo il limite della routine. Fino a qui tutto uguale, con la variante degli ingredienti per cena (oggi era una bella
Fiorenza, probabilmente mutazione letterale di Fiorentina).

Alle nove e venticinque si spegne tutto e la mia routine finalmente si spezza. Riordino i libri di inglese, apro le finestre.
Accendo la musica, chiudo i cassetti lasciati aperti
oggi.
Ieri mi sono semplicemente limitata a cambiare l’ordine delle lampade sui comodini.

Dicevo

la magia inizia se esco dalla mia stanza dopo le nove e vinicinque.
Nessuno l’ha deciso, ma da una settimana ho iniziato a frequentare la cucina ad ore improbabili.
Mi sento padrona della casa senza neppure sfiorare un mobile, mentre procedo verso il salotto a piedi nudi sul pavimento in legno
via
fino all’altra parte della sala.

E lui ci riesce,
il silenzio.
Smussa la sensazione di estraneità che spesso provo di giorno, qui dentro, circondata da altri come me che
per forza di fatti respirano.

Sentirsi a proprio agio al buio è una delle cose più difficili da fare, quando si è con se stessi.
Quando regolarmente accade di scontrarcisi,
ci addormentiamo
noi,
e il buio scompare.

Lo chiamiamo tempo di dormire e lo difendiamo con l’arma della stanchezza. Bella scusa.

Orgogliosa sorrido al mobiletto delle spezie davanti a me e tamburello con le dita sul marmo fresco, perché anche oggi non ho perso niente.
Poi l’acqua bolle, prendo qualche biscotto dalla dispensa e a tentoni torno sul mio sgabello.

Non mi freghi buio, questa volta,
affogherò il sonno nella tazza e fingerò di avere tempo,
in compagnia della solitudine,
che poi ha una faccia oggi!
Tale e quale alla mia.

#4

Pensavo,

sono proprio indietro.
Io e la poca voglia di accettare i posti fermi,
le patate arrosto in salsa agrodolce,
i Thè tiepidi.
Non capisco
se è il caso di provare a stare ferma con chi ha poca voglia di camminare o di inseguire chi ne ha troppa.

L’America è comoda,
-almeno questa parte ha gli angoli smussati e soffia la brezza dall’Altlantico-
così lucida e pacchiana,
quasi fosse una scenografia troppo bella per uno spettacolo mal recitato.
Ed ecco che il lavoro lo trovano quasi tutti, mica la crisi si sente,
c’è da mettere in piedi lo show,
ci sono alberi, cespugli, castelli da ricoprire di cartapesta e dipingere.
Le tende di velluto da lavare e buttare in asciugatrice.
Cerare il pavimento.

Qualcuno capisce cosa intendo?

Mancano otto mesi e potrò finalmente decidere dove e se spostarmi, ancora.
Che poi,
chissà perché a uscire dai paletti delle abitudini si diventa così critici e acidini?

Ed indietro lo sono davvero. Di ben sei ore. 

#3

Ci hanno chiesto se volevamo rimanere, mentre ci obbligavano ad andarcene.

 

Le hai presente le Americanate? I film, intendo.
Quelli che dopo Mamma Ho Perso l’Aereo ti fanno credere che davvero i ladri entrino per la porta principale
e domandare perchè ogni Natale sotto i loro abeti (sempre più verdi di quelli alpini) ci siano cuccioli nei pacchetti dai fiocchi di raso.
Sempre che tu non abbia già adottato un topo ballerino bianco facendolo sentire parte della famiglia.

Questo è il primo paletto.

Il secondo lo vedi facendo un passo avanti.
– uno solo, non servono grandi sforzi tra la TV ed una birra nel frigo –
Ed è quello che vorresti travare, le aspettative, se mai dovessi un giorno capitare qui,
in questi Stati bene o male Uniti.

Insomma, un bel campo di battaglia per i sogni.

Ecco, tra questi due paletti ci sta una cosa.
Anzi, ci stanno delle cose
chiamiamole persone.
Non tante, circa quattrocento mila
tutti italiani.
Stanno qui e a volte si guardano attorno, usando i paletti come stuzzicadenti,
dopo aver realizzato che la Green Card non si mangia.

 

 

#2

Il treno al mattino che porta a New York non è mai stato così lento. Puntualissimo, ma lento.
Avevo dimenticato tutto. Libro, occhiali, soldi, documenti. Se mi fermavano ero nessuno.
Anche se non mi fermavano, in realtà. Tra la folla della qurantasettesima o della cinquantesima ero comunque chiunque. Che è peggio di nessuno.

New York mi ha odiata per averle dato il Buongiorno in italiano.

Poi le cose si sono arrotolate su se stesse, hanno preso un forma color ocra e blu e gialla, soprattutto una forma gialla.
E abbiamo camminato ovunque, io e altri due piedi finalmente italiani.

È capitato che a volevo tornare in Italia a mezzogiorno. Cose che se non lo fai subito stai male.
La sera invece, al ritorno verso casa ci avevo già ripensato. Cose che è meglio non ripensarci più.

Ora io lo so, sono i treni che fanno cambiare idea. I treni o i colori.
Ma parliamo dei treni.
Basta sedersi non al solito posto, sbadigliare,
cambiare punto di vista,
iniziare a scarabocchiare il volto del vicino di fronte su un block notes
ed ecco,
domani pizza all together, con sconosciuti che sconosciuti non sono più.
Ora perdonami grande mela, accetto tutto. Davvero, anche il caffè acquatico, ma ti prego,
ti prego in inglese
se preferisci,
ma non farmi perdere più.

Non serve che tu mi nasconda,
da chi poi? Lasciami pure in vista.
Tanto
in Italia ancora, ancora non ci torno.

 

#1

Si parlava finalmente, oggi a tavola. Il clima sembrava quello friulano, tipico della polenta, formaggio e vinello. Senza polenta, formaggio e vinello ovviamente. Al massimo il parmigiano sopra il petto di pollo.
L’importante era commentare dunque, dopo il quarto d’ora sulla tragedia di Boston il discorso è virato all’Influenza suina che sembra riapparsa. Poi qualcuno ha sfiorato la politica italiana, probabilmente perché dopo molto tempo c’ero a cena pure io.

Hanno pensato di coinvolgermi nel discorso chiedendomi se fosse Grillo, Berlusconi o quello ultimo, quello da qualche giorno in pensione, il comico.

Ho posato forchetta e mani sulla tovaglia e non sapendo proprio come gestire il mio inglese ho risposto che ognuno a modo proprio ha collaborato a farci venire le lacrime.

Non hanno capito, ma hanno riso, riso fino alle lacrime finchè non hanno capito.