La nonvolenza

Quando è arrivato fine luglio, prima che mi scadesse il contratto, a lavoro mi hanno mandata in ferie. Mi ci hanno proprio mandata perché ho avuto un preavviso di una settimana, forse anche meno, già non ricordo più. E non volevo andarci in ferie io, che me ne facevo di due settimane di ferie a fine luglio senza preavviso, a Roma? Poi quando è arrivato agosto, mia mamma ha detto che sarebbe venuta a trovarmi, ma per quanto fossi contenta di rivederla, avevo come una nonvolenza addosso, dentro, chissà perché. Meno male che ho una casa di trentatrè metri quadri, pensavo. Poi è arrivata, ci siamo pure divertite, una sera siamo perfino andate a cena da un mio amico, dall’altra parte di Roma. Abbiamo mangiato vegano, parlato di cose che parlano le persone a  venti o trent’anni, il mio amico poi ha baciato il suo compagno e mia mamma ha fatto degli occhi quadrati, forse esagonali, giá non ricordo più. Poi quando dieci giorni dopo è partita, mi ha chiamata e chiesto se venivo io a passare qualche giorno in Friuli, e io non volevo andarci in Friuli, che mi sembrava di avere così tante cose da fare, visto che il contratto a lavoro non mi era stato rinnovato e avevo trovato il modo di riempire le ferie forzate con altro lavoro. E invece poi l’ho tirata per le lunghe ma ci sono andata, con il gatto, Roma Termini-Venezia Mestre, tutto d’un fiato. Sono due mesi che mi sembra di fare delle cose che non voglio fare, che poi faccio comunque e sono pure cose che riescono bene. Chissà che è.

L’avanzo del davanzale (parte 1)

Ho sempre voluto una pianta mia. Diciamo da quando mi sono resa conto che non solo le pareti si potevano riempire di cose belle, ma pure i davanzali. Allora quando sono arrivata a Roma la prima volta, io non ce l’avevo un davanzale, avevo però delle pareti ed una muffa enorme che occupava tutto l’angolo. Così ho ritagliato un centinaio di cerchi da della carta da pacchi trovata in svendita al mercato, li ho divisi a metà e attaccati al muro, semicerchio vicino a semicerchio, coprendo la muffa e gran parte della parete principale. Il risultato è stato strano, la carta si arricciava un po’ quando c’era corrente e il tutto sembrava il fianco di un grande pesce squamato. Il secondo anno invece, non avevo nemmeno delle pareti tutte mie, perché condividevo la stanza con un’altra persona molto gentile che a sua volta divideva il suo letto con me (e ricordo che si delimitava la metà con un cuscino).

Da novembre ho affittato una stanzetta più alta che lunga. Ha una grande finestra, sproporzionata ma comodissima per la luce che entra anche di notte grazie al lampione alogeno proprio lì davanti, poi c’è un piccolo davanzale e pure dei quadri alle pareti, che non so che quadri siano, ma stanno appesi tutti in un angolo, quello alto accanto il soffitto. Proprio come una muffa, ma decisamente più piacevoli.

Parentesi

A volte mi viene da pensare nella mia prima madrelingua. Mi imbarazza però, mi stranisce pensare in russo, perchè quando me ne accorgo mi sento come se fossi entrata in casa altrui senza bussare o chiedere permesso.
Ultimamente mi capita spesso, comunque, e il motivo è che sto traducendo un romanzo di Aleksandr Skorobogatov, che scrive in russo. Alcune delle parole che usa, soprattutto dentro parentesi, a me verrebbe da estrapolarle fuori dalle parentesi, così, perchè è inutile tenerle lì una volta tradotte in italiano, mi pare. Proprio per una questione di stile (che non so nemmeno che stile debba avere un romanzo con così tante parentesi).
Ad ogni modo molte parole mi rimangono in testa, a forza di rileggerle, e finisce che le inserisco nei pensieri fluidi, quelli italiani, di tutti i giorni.
Un’altra cosa che mi fa strano è parlare di tutto ciò con qualcuno, intendo a voce. Iniziano subito le domande senza punto di domanda come ah, però l’hai imparato bene l’italiano oppure ti mancherà casa tua, ma a me non manca ne casa mia, viso che ho messo piede in italia quando avevo sette anni, né posso rispondere a domande senza punto di domanda. Quindi al massimo ne scrivo.

Accadeva: 18 anni fa [parte 2]

Mia mamma a quel tempo confondeva le parole in tedesco, io nemmeno lo ricordo più, a distanza di quasi vent’anni. Andavo a scuola in un paese a pochi chilometri da Vienna, imparavo il tedesco come solo i bambini sanno assorbire le lingue e mi dicevano che ero brava, quindi mi sentivo brava.
Avevo i capelli corti. E questa cosa dei capelli è stata una delle prime rassegnazioni.
Prima dei sei anni, ogni volta che superavano la lunghezza giusta per coprire le orecchie, mi venivano di nuovo pareggiati ai soliti tre o quattro centimetri.
Così sono più comodi e puoi correre e non impigliarti da nessuna parte, diceva nonna.
Ma te li taglia con la scodella in testa, tua nonna, i capelli? Chiedeva mamma.
Con i bambini nel cortile continuavamo a giocare nella sabbiera, anche quando scendevo con la riga in mezzo e la frangetta, a disegnare sul cemento con i gessi colorati e certo. Magari prima ti scrutavano, certo, poi comunque ci si andava ad ammaccare le ginocchia insieme nel cortile.
Di giorno c’era sempre qualcosa da fare tra i divani lasciati agli angoli delle strade e poi trasformati in finte barche, il nascondino, le ciliegie mature e le coccinelle nei campi di trifoglio, i pesci tropicali nel piccolo fiume prima della pista degli aerei, le tartarughe nelle gallerie sotto i cavoli verza, cose così.
Ad ogni modo, non ricordo perché, ma nonostante volessi anch’io dei codini, il mio senso polemico pareva ibernato. Mi spingevano, cadevo, mi rialzavo, tornavo a giocare con altri bambini. Non volevo mangiare, finivo lo stesso quello che avevo nel piatto. Non avevo sonno durante il sonnellino pomeridiano all’asilo, rimanevo con gli occhi chiusi il più immobile possibile fino a che non riaccendevano le luci o aprivano le finestre. Lasciavo fare e poi magari piangevo. O anche no.
Ci voleva troppo impegno a contraddire gli altri, con o senza codini, avrei comunque continuato ad arrampicarmi sugli alberi e vedere le bimbe bionde sotto, con le loro nonne intente a rifare ciocca per ciocca il loro patrimonio sotto forma di trecce.

Accadeva: 18 anni fa

A lanciare le pigne nel lago, non sai che cosa vai a intasare – mi diceva.
Confondeva lago con fiume.
E se anche avesse azzeccato la parola giusta avrebbe comunque chiamato fiume un corso d’acqua. Probabilmente avrebbe chiamato fiume pure un canale di scarico. Tuttora penso che la sua fosse una sorta di pigrizia verbale.
Io me ne stavo sull’erba, il piccolo tavolino di plastica bianco sistemato sotto una pianta di rose. Non la toccavo quella pianta, era piena di insetti verdi, tutti appiccicati agli steli, alle foglie. Evitavano solo il fiore, che era giallo. Tuttora se penso alle rose, viene fuori che sto pensano ad un Pantone giallo.

Il giardino era parte della sponda del canale che passava proprio lì. C’era una rete però, a dividermi dall’acqua.
E ci stavano delle papere, spesso con la testa giù, a raschiare il fondo e le zampe all’aria.

Lei le chiamava indaùtki. Da quello che so, anche mia nonna chiamava Indaùtki delle oche reali che tenevamo quando ancora stavamo in Uzbekistan, quindi anche mamma aveva preso a chiamare in quel modo esotico ogni singolo essere dal becco lungo e le zampe palmate.
A volte entravano in qualche modo nel giardino, si stufavano a stare solo nel canale forse. Quando le vedevo dalla finestra della sala scendevo giù di corsa per rincorrerle, finché non prendevano il volo. Erano papere che volavano, non indaùtki, dicevo a mamma. Le indaùtki non volano. E ad ogni modo solo in Austria ho visto volare degli animali così grossi, dei vitelli, dei manzetti erano.

Capitava anche che una di loro, immagino la capo-papera, si voltasse prima con il collo, poi con tutto il corpo, e iniziasse ad inseguirmi. Un cambio di ruolo. Prendevo paura, era raro che attaccassero, ma quando accadeva facevo i giri attorno la pianta di rose, urtavo il tavolino di plastica, scivolavo sull’erba, poi sentivo le ali sbattere, mi giravo e c’erano zampe arancioni ovunque in cielo, tutte ripiegate e nascoste sotto le loro pance piumate. Bolidi marroni e verdi planavano sopra di me per qualche metro e atterravano oltre la rete, nel canale.

[continua]

Domani

Volevo scrivere a proposito di due persone belle ma terribili, qui, ma poi sono entrata nel bar dove spesso mi fermo per un caffè e mi sono seduta al tavolino accanto alla vetrata. E per una coincidenza é passato a trovarmi un conoscente, abbiamo chiacchierato e le cose che mi diceva mi sono sembrate di gran lunga più interessanti di ciò che avevo in testa io e che, per di più, tradotte a parole, erano proprio delle castronate. Così me ne sono stata zitta ad ascoltarlo, sorridendo, e alla fine quando ci siamo salutati mi era passata anche la voglia di scrivere di quelle due persone. Magari domani.