Volevo parlarne
di Bushwick, di Brooklyn e delle scarpe appese ai fili della luce.
Alle strade di polvere e delle persone come fogli bianchi.
Ma non ho più ritrovato le parole, le avevo consegnate già tutte a destinazione. Quindi copia-incolla e taglia, ed ecco qui ciò che non so ripetere.
*
Buon Giorno […]
le mail dovrebbero arrivare senza intoppi, quindi boicotto gli sms, per questa volta.
Ho visto che mi hai scritto ieri sera -oltre a questa mattina- e mi sono preoccupata per te, i tre bambini a casa e la mamma (loro, per fortuna.)
Che cosa hai inventato? Che cosa state facendo? Che cosa avete fatto? Stai resistendo o ti stai divertendo? Spero ci sia sole. Perchè qui piove ed il piccolo dorme sul divano tra i cuscini, così trovo il tempo di scriverti. Mi hai dato [vai di traduzione italo-americana] una forza immensa sabato, scaraventato addosso il senso del rispetto, nei miei stessi confronti.
Ultimamente non rispettavo che la regola della commiserazione e dell’ “Okay”, cosa che non va mica bene. […]
Ebbene si, questo weekend è stato uno dei più strani, passati a New York.
[…] non avevo idea che la Subway avesse chiuso la linea C, proprio quella che avrei dovuto prendere per arrivare a Brooklyn.
Non stavo bene. Troppo caldo, cemento bollente, sole a mezzogiorno. Avevo delle scarpe chiuse con tanto di calzini neri, sono andata in iperventilazione dopo cinquecento metri, poco dopo aver passato il quartiere di Fulton.
Mi hanno accolto gli scalini di una di quelle tipiche case di Brooklyn, famose proprio per glis calini. Più, un bicchiere d’acqua direttamente dalla tanica di plastica che una volta deve aver contenuto sei litri di latte, che l’inquilino della casa-con-scalini (dopo essersi a dovere spaventato) mi ha gentilmente portato.
Per la prima volta ho pianto, e devo dire che nemmeno mi è dispiaciuto. Le lacrime erano addirittura più fresche dell’afa, scendevano e mi sentivo meglio.
Ma non era una bella visione a quanto pare, chiunque passasse mi guardava per un attimo e poi voltava la testa dall’altra parte. Che razza di imbarazzo ci assale nel veder piangere qualcuno?
Stavo li, senza scarpe, con questo omone nero in pantaloncini da basket che non sapeva cosa dire o fare. Grande com’era occupava l’intero pianerottolo, al di sopra di me, alla fine ho dovuto tranquillizzarlo io, per farlo sedere dove prima era seduto.
Io avevo solo bisogno di sedermi e smettere di far girare la testa.
Sarei rimasta li, fino a finire l’intera tanica, ma cosa avrei dato per non avere nessuno accanto in quell’istante. Nessuno che mi venga a prendere, a recuperare. Non so per quale motivo questa sensazione si impossessò di me per tutta l’intera durata del weekend.
Non bastò alloggiare in una casa nuova, […] non bastò passare la notte in un altro locale meraviglioso, ad ascoltare e assorbire musica viva.
Non bastò nemmeno la domenica a Bushwick, in occasione della settimana “Open Studios” dove centinaia, ma che dico, migliaia di artisti hanno aperto le porte dei propri laboratori nell’intero quartiere. Pittura, scultura, installazioni di legno, silicone, vitro, polvere, carta, ruggine o tutto insieme.
Immaginati un edificio enorme del 1900, a tre piani e tante stanze. Finestre “a vetrata” ancora alla vecchia maniera, stoffe bianche, arancioni o blu a coprirle. Ogni artista, nella sua stanza, per la sua stanza, tutta la vita dentro. E il risultato lo vedevamo noi, spettatori, in tre giorni all’anno.
Questo è B.O.S. – Bushwick Open Studios. Ne avevo sentito parlare, ma non mi sono mai esposta più di tanto per capire di cosa si trattasse. Oltre l’edificio altre case, condomini o soltanto piccoli locali residenziali, porte aperte ovunque. Entrate e guardate, interagite.
Io, Abituata alla biennale di Venezia, nel suo splendore concettuale o al massimo minimalista, non mi aspettavo nulla quanto mi hanno proposto di fare un salto a Bushwick. Le cose in Italia iniziano e finiscono, ho detto, qui sembra invece che la fine non esista. Ma forse non avrei dovuto nemmeno provare a spiegare una frase simile in inglese. Letteralmente è stata presa per ovvietà, con il risultato di chiedermi se conoscevo la parola “universe”, mimando con le braccia cerchi nell’aria. “Magari in italiano si dice in un altro modo” .
[…] mi sono arrabbiata più o meno nello stesso modo in cui mi arrabbio ai “what” dei bambini americani. Quei what di risposta alle mie di domande in inglese. Vento che passa.
Insomma, ci pensi alle cose in Italia come accadono? Si rimette tutto a posto, si pulisce e rimane tutto in fotografia.
“Ti ricordi quella volta…?”
“…Si, è stato bello”.
Qui il sogno continua anche da svegli, dopo questo weekend tutti loro -pittori, inventori, creatori con mani come zampe, tuttofare- riprenderanno a fare ciò che hanno fatto negli ultimi tre giorni e in quelli precedenti ancora, ma senza spettatori in massa. La festa prosegue, contemporaneamente alla vita, al respirare, andare in bagno e mangiare.
L’aria lì è afosa per noi umani con un “lavoro” e le responsabilità d’oro annesse in tutte le tasche. Sebbene abbia ammirato e sia rimasta affascinata da così-tanto-mischiato-insieme-senza-stonare, mi sono sentita in bilico tra il concetto dell’insopportabile e quello dell’indispensabile. Il primo dovuto al senso comune del dovere, che mi faceva considerare l’intero evento (nonchè l’intera vita di quella comunità di persone) una cosa impossibile, il secondo per il semplice fatto che stavo finalmente sorridendo e invidiando, senza alcun rancore, alla visione reale di quelle persone così libere di esprimersi.
Perchè non è facile avere carta bianca, non è facile interessarcisi, in quanto tale.
Loro con quella carta bianca ci stavano addirittura affascinando.
E noi, impantanati nella routine a quadretti o a righe a scelta, a camminare immobili tra di loro.
Insomma, non è bastato. Sono rimasta stordita, e non era il caldo, ho sbattuto la testa contro una tela, ho rovesciato una bottiglia di merlot lasciata in bilico su una pila di schizzi e pennelli ammucchiati, quasi il mio corpo si volesse ribellare a tutta quella libertà di espressione.
Brooklyn mi precede e mi sorprende ogni volta.
Cosa sarei senza aver visto la nostalgia di casa farsi casa in un posto sconosciuto?
Lo vedo, ora hai un motivo in più per cercare di meglio, in tutti i sensi.
Ti auguro un pomeriggio tondo e bello.
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