Pancia Oceanica

[La cartina lì sopra indica chiaramente il Pesce-Isola sul(la) quale mi trovo. Dalla mia finestra -del bagno- vedo un pezzetto di baia Oceanica, che comunque non è Oceano, ma la sua pancia che rientra creando una laguna. Pancia, capito?]

Dai che forse i congiuntivi riesco a metterli in croce
o almeno in riga.
Ci provo, va bene?
Ma parto spezzando le frasi,
che già a metà si concludono senza virgole ne punti.

Sono in anticipo da questa parte del mondo,
avrei il tempo di inventare anche nuovi colori,
ma c’è spazio solo per le nuove vocali
o al massimo qualche consonante che proprio a pronunciarla
ti viene da corrugare la lingua stessa.

 

Non è poesia, mercoledì non è il giorno giusto,

è che ad andare a capo

a me

piace.

 

Da Aprile è primavera, 

da Aprile hanno spento il riscaldamento in casa.

 

Piano piano ho riordinato il mio guardaroba, togliendo i maglioni e aggiungendo alla wishlist, scarabocchiata su un post-it, qualche tshirt. A cosa pensavo quando ho messo in valigia solo felpe? Ah, già. America del Nord, la West Coast, Seattle.

Il freddo nove mesi l’anno. I miei progetti si sarebbero dovuti fermare lassù, per fortuna non è accaduto. Ha ha.

Ed oggi sembra Agosto, con quel vento caldo che soffia mentre dal cielo buttano secchiate d’acqua. Guardo fuori dalla finestra, hanno seminato il prato sabato scorso. Sono arrivati in divisa da giardinieri e hanno zappato, piantato bulbi nel cortile spoglio. Quattro messicani, simpatici, con le bretelle e con delle barbe che avrebbero fatto invidia anche al creatore di questa pagina.

Hanno raccolto i rami ed i tronchi che Sandy ha lasciato al suo passaggio a Novembre. Li ho guardati per un po’ dalla finestra della cucina, toglievano i sassi a mani nude dalle aiuole, i messicani. Come se niente fosse si chinavano ad ogni passo, in quei 200 metri quadrati.

Nelle ultime settimane la via dove abito si è riempita di camioncini con pale, sacchetti di terra e rastrelli e vasetti di ceramica sui marciapiedi. In meno di tre giorni l’aspetto dei giardini dei vicini è cambiato ed ormai i fili d’erba seminati sabato scorso hanno raggiunto quasi i sette centimetri. Quattro notti e siamo pronti ad organizzare pic-nic sul nostro nuovo prato. Da non crederci.

Davvero accelerava così il tempo, quando ero in Italia, alla fine dell’inverno?

Questa mattina ho fatto questa domanda a mia mamma, dall’altra parte del globo. Mi ha risposto vaga che comunque sia ci pensano i friulani a tagliare ogni rametto verde in più che ti possa dare speranza di vera primavera, in questo metà Aprile.
E questo è quanto accade stando in casa.
Se si esce invece la vita inizia a colorarsi.

Un mese fa -per esempio- mentre tornavo da New York, è accaduta una di quelle cose che succedono solo nei film, alle donne.

Ho perso la ruota posteriore dalla mia GMC mentre ripartivo al verde di un semaforo. In autostrada.

Nell’istante in cui ho realizzato che cosa era successo sono scoppiata a ridere, o forse a piangere, non ricordo. Non sapevo nemmeno chi chiamare, se restare fuori una volta scesa o rientrare in macchina. Il mio inglese è diventato spagnolo, ho chiesto aiuto a gesti mentre il telefono mi faceva notare che gli restava un misero 5% di batteria.
La gente suonava, era la domenica di San Patrizio, un gruppo di ragazzi vestiti totalmente in verde sono saltati fuori dalla loro Jeep e stringendomi la mano si sono fatti fotografare uno ad uno accanto a me, la macchina amputata e ruota accanto. Il tutto quasi in mezzo ad un incrocio a quattro corsie per parte.

In meno di un’ora mi hanno soccorsa polizia, carro attrezzi marcato Safe-street e pure un simpatico omone in divisa da maresciallo, messicano pure lui. Meno male.

La diagnosi è stata più ovvia che precisa: Revisione mancata nel 2012. Nell’ultimo mese avevo girato con un bullone solo fissato sulla ruota posteriore e quattro nelle altre. Un triciclo praticamente.
Inutile dire che ciò che non uccide fortifica. O arrugginisce, nel mio caso. Dopo le infinite scuse e cena da parte di coloro che mi hanno messo a disposizione il mezzo, la macchina è stata riparata in meno di ventiquattro ore e riportata al suo stato cigolante, ma sicuro.

Ora per qualche strano motivo non funziona la radio ed i finestrini non si abbassano, ma in compenso ho ripreso a guidare. Nonostante questo a trenta giorni di distanza ho ancora il panico quando scatta il verde. Passo gli incroci socchiudendo gli occhi e sudo freddo alla vista di code ai semafori.

*

La nostalgia, questa bestia senza denti, mi prende alla sprovvista mentre ordino una tazza di caffè macchiato sapendo con certezza che dovrò aspettare cinque minuti buoni, prima che il biondino in divisa da panettiere scaldi l’acqua, monti il latte e mescoli il tutto con del caffè in polvere. Per un macchiato. In tazza da cereali, qui funziona così, perché al prepararti un espresso preferiscono servirti un bicchiere d’acqua.
Non che mi dispiaccia aspettare, è quello che accade mentre me ne sto li con le mani nelle tasche a rigirare le monete da un dollaro tra le dita. Discorsi in tonalità diversa, quell’inglese sciolto e disinvolto, le infradito e sfoggiate al primo sole, i pantaloncini corti di Americani rimasti addormentati troppo a lungo sulle poltrone durante questo inverno.

Tutto ciò mi fa venire una nostalgia paragonabile all’invidia, ma in una forma più anonima e bianca,
e vorrei essere tutti loro, contemporaneamente, aver vissuto qui e non aver mai litigato con il fuso orario,
invece in tre mesi sono soltanto riuscita a fare pace con i risvegli alle sette di mattina, gli hamburger due volte a settimana,
i pomodori color arancio
e la promisquità di certi termini, come peperoni, che qui usano per indicare i salumi piccanti.

*

Ti invidio America, così giovane, con quegli Oceani ad abbracciarti e la presunzione di un adolescente, i tempi verbali dimezzati e la musica, che musica! ad amalgamare il tutto.

Ma qui mi sento io dimezzata, se non troppo giovane.

E mi mancano i caffè in tazzina, quella con il manico, il cucchiaino a parte e lo zucchero in bustina sul piattino bianco.
Ci trovavo le parole, a guardare un orizzonte che finiva
ed ora che ho l’infinito davanti, mi pongo dei limiti che mai avrei immaginato.

Tutto qui.

Il mio colore preferito è l’Oceano

Mi hai chiesto,
ma per strada, si girerebbero a guardarla?

Non ha intenzione di smettere di stupirmi questo continente.

Dopo la baia, la laguna.
E oltre l’Oceano.
Mi ha resa assente da quando ci sono entrata dentro, con lo sguardo.
Ho raccolto conchiglie, nelle tasche,
sabbia nelle scarpe.
Cinque miglia di costa sabbiosa, nessuno a calpestarla, diamo la colpa a Febbraio.
Il contrasto mi faceva impazzire, com’è che non mi era concesso di trovare le parole -anche tagliate corte-
per replicare?
Anche a distanza di giorni,
ammetto che la migliore
tra tutte le soluzioni
è arrendersi al suo colore, il mio preferito.

*

La macchina procede spedita, limite di novanta, ma noi ci possiamo permettere gli ottanta, prima di iniziare a scricchiolare.
Sto guidando verso la stazione di Ronkonkoma, mezzogiorno appena passato.
Cambio automatico, non mi diverto nemmeno un po’. Occupo la mano destra con un caffè, il piede sinistro fa pressione su una frizione invisibile.

Un’ora e mezza in treno, per poi uscire a due passi da Times Square.
Ho tempo per fare qualsiasi cosa, anche fingermi residente con i venditori ambulanti agli angoli delle strade. I tassisti non guardano negli occhi chi vive in città. Scatto una foto e mi tradisco.
Le ore scorrono come minuti, perdo la cognizione del tempo ed è già buio fuori da Times Square.
Vago fino a raggiungere Broadway, prendo la prima metro che trovo, sperando di azzeccare la linea. Vengo mangiata dalla subway e digerita sulla Union Street di Brooklyn, la mia destinazione. Nevica e sembra di stare a Trieste, è quello che penso.
Alle otto di sera sono davanti al locale, il biglietto in mano.

BOY
– Today, 9 PM – sold out

Pochi giorni dopo il mio arrivo negli States mi sono imbattuta in questo duo facendo zapping su YouTube. Tra un avocado e il silenzio delle giornate nella periferia di Seattle, scoprire e archiviare. Archiviare e sperare di non dimenticare.

Insomma, ora che mi trovo nei pressi di New York mi rendo conto che il centro del mondo potrebbe essere proprio qui. Tutto ciò che mi potrebbe venire in mente, ogni domanda che potrei pormi, è contenuta nel cuore della grande.
C’è qualsiasi cosa. Addormentarsi con la consapevolezza di far parte di un enorme Patchwork e la certezza di non avere freddo.

Sono qui, stento ad entrare, l’essere sola mi disperde le azioni. Dondolo sulle gambe, sbircio dalle finestre.
Un Bar? Un posto dove bere in allegria con amici per tornare a casa ubriachi a braccetto. Che ho sbagliato? Qualsiasi cosa sia, mi piace.
Mostro il biglietto, mi faccio timbrare la mano dall’omone all’entrata, sì, ho ventun’anni già compiuti da un ben po’, e sono dentro.

Non c’è molta gente, ma tutti i tavolini sono occupati, vedo solo un posto libero al bancone, accanto ad una ragazza che sta sorseggiando tranquillamente un bicchiere d’acqua e lime.
L’atmosfera è talmente surreale da farmi sentire subito a mio agio.
Tepore, musica e risa, bancone in legno, librerie alle pareti fino al soffitto. Luci soffuse e capelli sciolti, il barman mi saluta e dice che erano passati mesi dall’ultima volta che ci siamo visti, tutti si girano, io saluto e faccio come se fosse la stessa storia, stesso bar.

Ordino una birra e osservo le coppie giocare a bocce sulle due piste costruite una accanto all’altra proprio all’interno. A bocce ci giocano gli italiani annoiati in spiaggia, mentre qui si stanno perfino divertendo, con un rosso in mano e la ragazza che fa il tifo dal bordo-pista.
E ora? Mancano quaranta minuti all’inizio del concerto, dovrò aspettare ancora. Forse il tempo di un’altra birra.
Mi chiedo se sia veramente stata una buona idea venire qui da sola.
Crollano all’istante i buoni propositi di indipendenza ma non mi muovo, giro soltanto la testa verso la porta d’ingresso
ed è allora che li vedo.

Sono due ed hanno la mia stessa aria smarrita, ma soprattutto lo stesso biglietto in mano. Entrano, lei fa una faccia a metà strada tra sorpresa e sconvolta. Già, pure io mi aspettavo tutto tranne che un Pub. Un Pub con un campo di bocce al centro.
Lui la guarda, probabilmente si sta chiedendo la stessa cosa, ma punta già al bancone.
Vedo la scena da fuori, quasi fossi alta tre teste più di tutti, ma nessuno mi vede ne sente. Mi giro di più, le gambe accavallate si sciolgono e mi ritrovo in piedi.
Dieci minuti più tardi siamo seduti accanto alla pista, con hamburger e birre sulle panche di legno.
Non si è capito se Shon e Heidi siano consanguinei o fidanzati. Mi coglie la sensazione che si stiano divertendo a farmi credere il contrario di ciò che sembrano. La cosa certa è che -come me- sono qui per la prima volta, attirati da chissà quale alchimia che avvolge chi ascolta Valeska e Sonja suonare insieme. Personalmente non mi capitava dai tempi di Bon Iver.

Scopriamo che il duo non si esibirà dietro il bancone ne sul campo da gioco delle bocce, ma al piano inferiore. A dieci minuti dall’inizio si è formata una folla abbastanza grande da impedire il proseguimento del gioco,
ora la prevalenza delle persone aspetta l’accesso alla sala-concerti.

Il palco di legno, le chitarre pronte.
Mi faccio spazio tra ascelle e gomiti e finisco in prima fila. Perdo di vista Sean e compagna, ma li ritrovo con le mani alzate a metà sala, a chiedermi a gesti come ci sia finita la davanti. Non mi sposto, resto qui, ad un passo dal microfono e dagli spartiti buttati a terra

Mi sento in compagnia, seppure sia arrivata sola. Nessuno mi conosce, nessuno conosco, ma siamo tutti negli stessi cento metri quadrati.
La musica ci inghiotte,
sono solo voci e chitarre, corde tese. Mani sui tasti bianchi e neri.
Sono solo persone.

Si, per strada si fermerebbero tutti a guardarla, se solo camminasse cantando, seppur sottovoce.

La ragazza accanto a me -nelle pause- tira fuori un libro e legge, un uomo riprende a pochi metri – e sono sicura che ha guardato più lo schermo della videocamera che il palco nell’ultima ora. Mi sento stretta, qualcun’altro mi pesta un piede e allora mi giro.
Ci si guarda, si scambia una battuta e si finisce a bere un cabernet all’una di notte, in quattro.
Io, un americano, una colombiana e un cinese. Non è una barzelletta.

L’America fa così: ruba, non nasconde.
Questa volta si è portata via la nostalgia, quella che mi legava in modo quasi doloroso all’Italia e a tutte quelle cose che vengono in mente quando sei lontano da casa. Chi hai lasciato. Chi non ritroverai al ritorno.
Viviamo proprio di relazioni umane, non ci possiamo proprio definire indipendenti.

*

L’alba delle sei e sono sul treno. New York si sveglia dopo una notte insonne, le luci si spengono e ricomincia un’altra giornata che in realtà non è mai finita.

Perchè non organizziamo qualcosa la settimana prossima? Chi lavora, chi studia, chi come me fa un po di zapping tra l’uno e l’altro.
Ho una bici, io del tempo libero. E tu che hai oggi?

Ha ripreso a nevicare anche sull’Isola a forma di Pesce.
noi festeggiamo l’arrivo di questa primavera.

Confronti #2

Tutto ciò che accade qui lo posso bellamente suddividere in due categorie:

– Ct. INSIDE (ah, quanta fantasia) :    comprende tutte quelle cose che mi ritrovo ad osservare in e da questa enorme casa.
Con i ragazzi – chiamarli bimbi mi pare diminutivo, sono anche fin troppo svegli per la loro età – ieri abbiamo rivestito un grande pannello di compensato (probabilmente uno di quelli avanzati dalla costruzione della casa stessa) con carta verde e ci abbiamo piazzato sopra una miriade di animali in origami.
Loro hanno una pazienza infinita quando prendono in mano forbici e carta, mi sorprendo a posare la colla sul tavolo per un coffee-break dopo mezz’ora, mentre loro continuano a popolare il prato di ranocchie e gru. Ci sono anche due cani, un Labrador ed un Jack Russel. Accoppiata perfetta. E a volte ci aiutano pure a ripulire il pavimento dalle briciole di pancake, dopo colazione.
Questa sera in casa è prevista una festa a tema Hawaiano. Qualcosa legato all’attività azienzale dei genitori dei ragazzi, quindi pezzi grossi -presumo-, probabilmente in completo e mogli al seguito. Sono due settimane che non si parla d’altro. Non sapevo cosa aspettarmi, quindi ho evitato di pensarci nonostante la palpabile tensione nell’aria.
Invece questa mattina, scendendo in cucina a fare colazione, sono inciampata in uno striscione floreale e due pile di scatoloni, dal rumore presumo pieni di ghirlande, festoni, ombrellini e lanterne di carta colorata. Tutte cose probabilmente arrivate questa notte con il corriere. Ho il week end libero e spero che con la scusa “dai, che a te ‘ste cose piacciono” (perchè lo sanno che mi piacciono) non mi mettano a gonfiare palloncini.
In cucina la situazione era ancora più esotica. Almeno una ventina di Avocadi e Manghi sparsi su tutto il tavolo -presumo contati, quindi non prelevabili- tra banane, fragole, meloni verdi e perfino mezza anguria.
Diamine, siamo in Febbraio, ma il Messico è davvero generoso con il Nord America.
Mi sono fatta spazio tra le bottiglie di Martini, Tequila e Prosecco, ho spostato le sei confezioni dozzinali di uova, un sacchetto pieno di ananas ed il mazzo di tulipani ancora incartato. Aspettando che il caffè fosse pronto mi sono immaginata altrove, ma proprio non ci sono riuscita. Che sia il primo passo verso l’adattamento?

 

– Ct. OUTSIDE:   passo la maggior parte del tempo in casa, ora che fa freddo. Fuori c’è una pioggerellina innocua che farebbe invidia a qualsiasi abitante di Seattle, l’Oceano è grigio. Ieri era indaco, l’altro ieri plumbeo. Ho spesso vissuto accanto al mare, ma che mi ricordi, aveva dei colori più caldi e pastosi. Si può dire?
L’Oceano è altra cosa. Lo vedo dalla finestra del mio bagno. Si espande, sembra non finire. E questa è pure una baia, allora mi chiedo chissà come sarebbe guardarlo, l’Oceano, a quest’ora,
quello dove perdi l’equilibrio mentre cerchi l’orizzonte
e oltre c’è solo la curva della terra.

Sì, l’Oceano accade.

sConfronti #1

Dieci giorni su quest’enorme Isola, alla quale non sento ancora di dare del Tu.

C’è un rapporto di cortesia tra me e ciò che mi circonda. Sentirmi rispondere benvenuto ad ogni thank you mi fa sorridere. Presto smetterò di tradurre letteralmente.

Ci sto provando a socializzare in inglese con il vicinato, ce la sto davvero mettendo tutta, ma al massimo passo per timida. La ragazza italiana che porta a spasso cani e bambini al guinzaglio e in bicicletta, contemporaneamente.

Sarà il freddo salato, la neve alta tre metri accatastata ai bordi delle strade, i trecento grammi di pasta condita con salsa di soia. I ristoranti americani sono delle specie di fast food italiani con una tappezzeria più cartacea e le tovagliette colorate. È una nazione così giovane. Paragonabile alla mattina post-nottata-alcolica.

Sta in piedi grazie a quelli come noi che -generalizzo- la guardano da lontano con occhi sognanti. Vi vorrei tutti qui, voi che sospirate, a provare il bacon surgelato per colazione e la pizza al parmigiano il venerdì sera. Porterei per mano qualsiasi europeo per le corsie di questi supermercati, a cercare insieme a me del pane fresco o della pasta, non di soia. E meno male che non esiste l’espresso, qui. I caffè sono in taglia unica, grande tipo tisana, e favoriscono le relationship, la base dell’enorme palafitta che è l’America. Con il nostro macchiato italiano qui si fermerebbero al How are you? .

Ieri sono finalmente stata in West Hampton. Mi sono soffermata davanti ad una libreria, dopo aver comprato del pollo e pretzel per cena. Un Roth impolverato mi fissava dalla vetrina. Non oggi, mi sono detta, ricordandomi della macchina in seconda fila. Poi sono entrata e l’ho comprato. Al mio ritorno ho trovato il veicolo spostato di un paio di metri avanti, ho fatto il giro del mezzo: niente graffi ne ammaccature da nessun lato.

Oggi invece siamo stati ad accarezzare le razze all’Acquario. C’è proprio una zona, nell’Acquario comunale, adibita a questa attività che diverte da entrambe le parti. Mangiano sardine, gamberetti. Poi si fanno fare i grattini sul muso. E i bambini restano a fissare gli adulti che ridacchiano mentre scorrono i palmi delle mani sul dorso di quei strani pesci. A proposito, mi è stato detto che Long Island assomiglia ad un pesce geograficamente. Ho aspettato tutto il pomeriggio per correre in camera, aprire Google Maps e verificare che sì, è così.

Ed è esattamente la terza Isola a forma di pesce che mi fa da casa.

A nudo, finalmente sotto la doccia nella periferia di New York

Sarai felice di sapere che avrai una camera tua, sempre con letto a due piazze e qualcosa in più, un armadio, pavimento in legno, ah e sì, anche un bagno privato. E se canto non si sente, così hanno detto. Stai attenta, la porta del frigo cigola. Di notte ti potrebbero sentire.

Gli intonaci bianchi, i battiscopa in legno, la lampada in vetro smerigliato sul comodino mogano. E questo profumo di Casa che si sparge ovunque ovunque ovunque. Non che vada pazza per l’arredo vintage-legnoso, ma ha un che di accogliente perfino il comodino per i calzini.

Da quanto non sentivo il fresco odore di spazio?
Sono finalmente arrivata a destinazione. Oltre New York, in una cittadina a sud della Long Island, dove da dietro un metro di neve mi ha accolto il nuovo Host Dad, nonché papà dei due bimbi dei quali mi occuperò.

Sorridente, con un andazzo da “ehi-ho-appena-assaggiato-un-cabernet-pazzesco” ed un inglese scandito a piccoli pezzetti chiari e tondi, mi ha fatto una tra le buffe impressioni di Americano.
Abbiamo aspettato la valigia, che puntualmente è arrivata sul nastro, insieme a quelle degli altri venti passeggeri.
Ebbene sì, dopo lo scalo a Philadelphia sono salita su un aereo non più grande di un autobus extraurbano. Per un attimo, prima di accedere alla cabina, mi sono immaginata in prima classe, con pantofole morbide e mascherina, quasi fosse un jet privato per quelli come me che cambiano aria, invece mi sono ritrovata attaccata al finestrino, soppressa da una simpatica signora in maglione Ciano-Cielo di almeno un centinaio di chili, ma con la quale ho
scambiato le più piacevoli chiacchiere delle ultime quattro settimane. Le apparenze non ingannano: tanta sostanza, eccetera eccetera.

Sulla via verso la nuova casa le strade erano completamente gelate, bianche e soprattutto a due corsie. Evviva! Niente più immaginario terrore su quelle a sei di Seattle (che comunque non ho mai fatto in macchina, ma al solo pensiero rabbrividivo).

E qui mi fermo, prendo aria, da dove comincio? Si i(n)spira dalla bocca o dal naso?

Thè Verde. E attorno il nuovo mondo.

Per prima cosa le mie mani. Mani che hanno portato centinaia di cestini della lavanderia, alzato creature piangenti post-nanna, mescolato pappette, aperto e chiuso forni a microonde con biberon da scaldare, mani lavate ancora e ancora dopo aver cambiato pannolini, fatto da mangiare. Non contemporaneamente. Quasi trenta giorni, tutti visibili tra le crepe sulle nocche e polpastrelli. Carini i mignoli in particolare, così paffuti e storti ora.

Dopo le mani, un mobilio comprensivo di pianoforte nero a coda, tavolo di marmo in puro American style in cucina e un paio di Host Parents super busy attorno, a tagliarmi fettine di formaggio al caffè (italiano?) sul tagliere in ciliegio.

Oltre: i muri. Finalmente di cartone più resistente. La casa di per se sembra un castello color crema in miniatura. Come fiocchi, a decorarlo, cornicioni a sbuffo e tegole policrome viola-rosso-mogano-viola e così via.

Oltre ancora: la mia stanza. Questa mattina alle sette e mezza i bimbi, travestiti da ninja, sono saltati in camera di soppiatto. Non ci conoscevamo ancora, ma abbiamo lottato sullo stipite, io armata di cuscino e loro di ganasce in plastica. Ha vinto la Host Mom, entrando e trascinandoseli via per le caviglie. Perchè? Ci stavamo divertendo, al diamine la mia privacy.
Quindi ho tolto il pigiama, messo jeans e maglietta e ho respirato. Tanto ma tanto.

Ora che potevo permettermi di far rumore e annaspare.

Rifiutare la pappa pronta

Dopo tre settimane, che come arco di tempo suona molto inferiore a ciò che effettivamente tre settimane sono, ho superato i conati del JetLag. Niente più sveglie istintive alle tre del mattino (ora locale), torno a dormire per sei ore consecutive. Certo, riducendo il letto ad un groviglio di lenzuola, ma almeno le occhiaie si stanno mimetizzando con le borse sotto gli occhi.

Non ero abituata a dormire in un materasso così grande. Saranno almeno due piazze e mezze, queste. Nemmeno distendendomi a stella riesco a toccarne il perimetro. Mi chiedo chi si immaginavano di trovare, quando mi hanno preparato la stanza.

Insomma, facciamola breve. Mi piace qui. Oh, un sacco proprio. Nel mio 12% di tempo libero (che equivale esattamente alla percentuale di tasse applicata su ogni spesa fatta in qualsiasi negozio, nello stato di Washington) durante la settimana ho scoperto che    –    oltre la nebbia c’è:

  1. La strada che porta alla stradona principale, chiamata 100th Ave NE, che di conseguenza si collega alla 112th Ave NE e così via avanti a dozzine, fino ad arrivare a Seattle, dopo 40 minuti di bus.
  2. Un paio di Starbucks nei quali, se proprio non ci tieni a scoprire che sapore abbia il caffè americano trasparente, puoi semplicemente prendere un bicchiere di carta, riempirlo a volontà di ciò che vuoi agli erogatori automatici e startene ad un tavolo a farti film su cosa fare dopo.
  3. Preziose velleità climatiche.

Seattle è davvero magnifica. Permetterei di piovere all’infinito su di me, vivessi in una città così. Cammino e la gente mi scivola ai lati come banchi di pesci tra le reti della downtown. Hanno tutti una meta a Seattle, o perlomeno danno una piacevole impressione di essere impegnati. E pure io lo sono, ma per davvero. Cammino con Angela, una ragazza coreana arrivata negli States con il mio stesso programma, in discesa verso il lungomare. Sorpassiamo signori in cappotto e ragazzi in shorts e cuffie nelle orecchie, un uomo con un’arpa, due acrobati di strada. Cani al guinzaglio, biciclette a tre ruote. Tutto in discesa.

Al Pike Place Market perfino i senzatetto si sono riuniti in cerchio a guardare il sole, così raro. Ecco, non si parla altro che del sole oggi. Tutti a fissare in alto, a onorare con i menti alzati ciò che compare non più di ottanta volte all’anno. Al posto della pioggia o nebbia. Al posto dell’umidità, dell’Oceano nell’aria.

 

É così armoniosa e fresca questa zona, che quasi mi dispiace lasciarla. Starei bene qui, potessi avere tempo.

Ma per vari motivi non mi è stato concesso avere tempo. Quindi ho fatto in modo che sia il tempo ad aver bisogno di me. Suona colossale e tremendamente pomposo, lo so. Ma ho trovato il modo di rendermi utile sull’altra sponda, del continente. Tradisco la West Coast, per la East. Avrà di me pietà la verdura, frescura e nebbiosità? Gli alberi in muffa, la linea 255 del bus?

Preparo la valigia con calma, tanto il mio volo – prenotato per questo Venerdì – è stato bannato dalla tempesta di neve a New York. E visto che a New York ci dovrei proprio atterrare, tocca aspettare fino a Domenica.

D u e     l u n g h i     g i o r n i ,         a n c o r a .

Ecco, quella sensazione di eccitazione misto attesa pre-qualcosa. Distrutta a poche ore dalla sua realizzazione. Da fastidio, anzi prude. Si, mi prude tantissimo e ora che ci penso fa anche male. Ho una valigia troppo grande. Le lenzuola sembrano più ruvide, la cena è un’insalata di banane con lattuga, senza avocado. E senza avocado torniamo ai tempi infelici del Cultural Shock – JetLag. Cose terribili che si combattono solo con la sopportazione di ciò che adesso mi ritrovo come peso, per le prossime 48 ore.

Il tempo.

Ero psicologicamente pronta a partire. Ed ora che devo rimanere qui (tra l’altro non ho più la mia mini percentuale di tempo libero, torno a lavorare seppur per due giorni), ora che devo aprire con cautela la zip, estrarre ancora un paio di calzini, mutande e maglioni, tutto sembra più pesante. Mi vizio da sola e me ne vergogno. Vizio perfino il mio imbarazzo e lo scrivo qui, che mi vergogno.

Non so aspettare e nessuno mi può insegnare a far passare il tempo, in quanto io stessa -nelle ultime tre settimane – ne ho sentito la carenza colossale.

Sarebbe come rifiutare la mamma che ti rimbocca le coperte a vent’anni.  Si vorrebbe, ma non si fa.

How much Avocado is too much?

La tazza verde sul tavolo,

una caraffa quasi vuota,

la cena nel freezer,

srotolo la confezione di mais surgelato,

[magari insieme all’insalata di banane e avocado,]

la tapparella della cucina non filtra che le luci delle case degli altri.

Piove tutto il Lunedì, Martedì e pure tutti gli altri giorni che compongono il resto della settimana.

La cosa straordinaria di questa fetta di mondo è l’organizzazione. Simile ad un formicaio, costruito nel giro di una notte, [tutti] gli Americani vivono sostenendosi a vicenda, ma non toccandosi affatto. Oggi ho scoperto che la casa nella quale abito è tra le più vecchie del quartiere -e dei quartieri attorno- ha ben trent’anni. Accidenti. Trent’anni sono io, più poco meno della mia metà. Non mi pare poi così tanto, ma forse il cartone dei muri si sciupa dopo qualche stagione fredda.

L’America è proprio una nazione gggiovane. Lo confermano le villette colorate  di compensato e cartapesta, i giardini con gli alberelli di Ginkgo dalla circonferenza non più grande del mio polso, il prezzo delle patate al supermercato. Dai, Tomato a 3$ per libbra? Sono quasi sei dollari al chilo, e dire che è nato proprio qui il pomodoro.

Eppure è già tutto surgelato, impilato e distribuito ai diretti interessati, a partire dalle celle frigorifere dei supermercati, fino ad arrivare ai servizi, igienici o sanitari che siano.

Ecco, a proposito di sanità.

Per la prima volta, e spero l’ultima, ho fatto conoscenza con la medicina del continente. Per una strana forma di allergia, deduco a qualche legume, vegetale [muffa? ndr] che cresce in queste zone, mi sono ritrovata in un mare di lacrime e starnuti. Ricevere assistenza, o solamente una visita medica qui non funziona come in Italia. E nemmeno come in Dr House, piuttosto Scrubs, senza la comicità da cornice. Medico di base? Di famiglia? Macchè. Di base bisogna solo aspettare, con al massimo qualche componente della famiglia che ti tiene la cartellina con i tuoi dati, mentre cerchi in borsa il tuo passaporto.
Dopo aver prenotato tre giorni prima, pagato via carta di credito 200$ come caparra, riconfermato i miei dati via Email e finalmente aver avuto accesso alle poltroncine blu nella sala d’attesa, il Dott. Americano ha avuto accesso a me ed al mio problema di sopravvivenza.

Non riesco a respirare, bene – ho detto, ovviamente in inglese.

Ah, Italian? C’mon, what’s wrong ? –

Iniziamo alla grande, ho pensato, non ho scampo alle origini adottive. Ma poi mi ha fatta salire su un cubo di plexiglas trasparente non più grande di trenta centimetri, mi ha pesata, preso l’altezza, misurato la pressione, la febbre, le orecchie sono pulite, linfonodi okay, sei sana come un pesce. E il raffreddore e gli starnuti sono una reazione allergica. Ma potrebbe anche essere un’infezione post infiammazione. Cosa possiamo fare? Vai di Amoxicillina per una decina di giorni, ti faccio la ricetta adesso. Se non funziona, stai sicura che è un’allergia, ma di per certo avrai anticorpi grossi come cavalli, per una futura infezione, sia mai.

Ora, oltre al thè in microonde e mirtilli surgelati dal Messico (nel prossimo capitolo giuro che ne parlo), avrò per merenda antibiotici.

E riguardati, mi ha detto facendomi scendere dal cubo.

 

[Più sette giorni in America]

L’America questa mattina sa di muschio, arance e cose appena lavate.

  • Muschio: Mi trovo nei dintorni di Seattle da appena tre giorni, avvolta nella più fitta nebbia che io abbia mai non visto. Altro che pianura padana. Questa è nebbia di qualità, si può spostare con i palmi delle mani, si possono letteralmente creare cumuli bianchi solo muovendo le braccia a stile libero. Non sto esattamente in città, ma in un paesino accanto. No, nemmeno. Nella periferia del paesino, qui mi hanno detto che l’ubicazione precisa della casa è di tipologia cul-de-sac [ndr] che, qualsiasi cosa voglia dire, fa concorrenza al nome del mio paese di residenza in Italia (ridete con garbo, voi pochi che sapete).
    Insomma, dopo una manciata di giorni qui tra le due bambine da badare nei miei panni da AuPair, l’umidità pari al bagno dopo la doccia, il jet-lag in perenne competizione con la mia sveglia e un senso di curiosità misto chediamineèquesto verso qualsiasi Americanata vista solo nei film -e ora confermata nella mia nuova realtà- … è il muschio a prendere il sopravvento.
    Io stavo per impazzire per la carenza di raggi UV o almeno una fetta di cielo azzurro, la mia Host family stava già delirando da un pezzo per le urla giornaliere delle bimbe. Tutto sembrava precipitare, l’umore in primis. Quando dopo più di 48 ore la nebbia si è diradata mostrandomi le case a destra, a sinistra e davanti (tutte uguali tra loro, a strisce orizzontali azzurrine o grigine, con i giardini curati attorno) ho finalmente visto lui. Il muschio. È veramente ovunque, sugli alberi, sotto gli alberi, negli alberi. Tra i cassonetti verdi e marroni, agli angoli della strada coperta pure le di morbida muschiaggine. I tergicristalli della Jeep davanti la mia casa avevano un accenno di verde, con tanto di fiorellini minuscoli sulle punte. Allora ho pensato, ma te guarda, proprio in un posto così dovevo capitare. Dove l’inverno dura tre quarti dell’anno e l’estate fa spallucce già ad Agosto. Ah, se ce la fa il muschio,ecco che ho pensato.
  • Arance: Ieri sono andata a fare la spesa per la prima volta. L’evento è memorabile, me lo sono segnata sull’agenda con un’enorme asterisco che riportava alla parola IMBARAZZO. Potessi scriverlo in corsivo, grassetto e maiuscolo contemporaneamente, lo farei. Mi sono sentita in soggezione, ma tanto davvero, per l’ordine quasi statico, la cura nella disposizione dei caschi di banane a piramide (quadrangolare) nel reparto ortofrutta.
    Per curiosità (okay, era più che curiosità) mi sono avvicinata all’Angolo Italiano che ospitava cestini con confezioni grattugiate di Parmigiano Reggiano, pacchetti di fusilli e pennette di soia (5$ ogni 100 grammi WTF) e un’enorme freccia fluorescente di cartone indicante i pomodori  poco più in là, accanto alle arance, a 6$ al chilo.
  • Cose appena lavate: Sono due le cose che nella mia vita italiana, per sopravvivere, non avrei mai avuto il modo/necessità/voglia di usare.
    Il microonde per esempio è il primo nella lista. Qualche anno fa alla sagra del Vino in Friuli ne vinsi uno alla pesca di beneficenza, trovando il biglietto fortunato proprio per terra. Felice, trascinai la scatola contenente il premio a mia madre, seduta poco più in là. Non possiamo tenerlo, mi disse seria. Fui costretta a regalare ad un parente lui ed il macigno di onde dannose che mamma gli aveva attorcigliato attorno. In America invece è come la caffettiera per gli  Italiani, c’è sempre e comunque, al di là dell’uso che ne possano fare (che sarà pur sempre superiore al consumo del caffè nelle nostre caffettiere italiane).
    Ho capito che qui non c’è speranza di scaldare l’acqua su un fornello.
    Non si fa e basta. 45 secondi di microonde ed il thè verde è pronto fumante, con tanto di tazza ancora fredda.
    La seconda cosa è quella sconosciuta di un’asciugatrice. Una lavatrice all’incontrario, che accelera il processo naturale -oltre che dell’asciugatura- anche della stagionatura dei vestiti. L’ho provata oggi, un po’ rattristita dalle magliette che giravano in tondo nell’oblò. Dicono che non gli faccia tanto bene. Ed infatti invece dei calzettini blu ho tirato fuori un paio di calzoni azzurri, la felpa ha una manica più lunga dell’altra e il pigiama si è ristretto sui fianchi. Quest’ultimo mi piace anche così, per fortuna.
    Per il resto, la macchina svolge il suo mestiere. Dopo nemmeno mezz’ora, perfino l’ultima delle mutande in flanella era asciutta. Cose che nemmeno a Luglio inoltrato, le lenzuola sui tetti dei condomini.

New York

Non c’entra nulla, ma Giovedì ho passato una serata a New York che rifarei anche al prezzo di un inverno intero tra la nebbia a cul-de-sac.

 

[Meno zero] Solo andata per l’America

 La scuola è fatta per avere il diploma. E il diploma? Il diploma è fatto per avere il posto. E il posto? Il posto è fatto per guadagnare. E guadagnare? È fatto per mangiare. Non c'è che il mangiare che abbia fine a se stesso, sia cioè un ideale. Salvo in coloro, in cui ha per fine il bere.
Giuseppe Prezzolini, Codice della vita italiana, 1921

Abbiamo iniziato a festeggiare trenta giorni fa. Quando le certezze finalmente iniziarono a maturare abbastanza da essere succose e visibili.

Non ho nemmeno avuto il tempo di capire che emigrare negli States e restarci per lavoro è considerata un’utopia. Mi sono ritrovata in coda direttamente al Consolato Americano di Milano, insieme ad altri come me, sguardo dritto, ginocchio tremolante e documenti alla mano. Una settimana dopo il Visto è arrivato con la nonchalance di una pubblicità del discount dietro l’angolo.

La verità è che di soluzioni che ne sono sempre almeno due. Anche i no sono una possibilità, ma noi qui abbiamo puntato al si. Andare verso.

Parto tra poche ore e nemmeno ho realizzato che Seattle si trova a ottomilacinquecento chilomentri dall’Italia. Scritto in lettere sembra una distanza ancora più lunga. Mi limiterò a salire sull’aereo, allacciare le cinture di sicurezza e immergermi in un sonno profondo, nell’attesa del pranzo, possibilmente a fuso italiano.

Volerai nel passato, dice la nonna. E lei se ne intende, ad andare avanti indietro a spiegare al nonno che invecchiare è nor-ma-le. Na-tu-ra-le.

Così, oggi che è una bella domenica grigia e umida, zii, nipoti e parenti della famiglia Alaska si sono riunti a festeggiare (?) l’addiversario dell’ennesima partenza dell’Alaska in persona. Sottoforma di pranzo post-Natale. Carni alla brace, polenta, patate novelle e cose buone, che non smettevano di ricordarmi che me le sarei solo sognate dal giorno dopo, per il successivo anno. Ah, ecco il caffè. Affoghiamoci il gelato, così da averne un ricordo ancora più dolce.

Qualcuno mi ha regalato un’agenda, qualcun altro un’altra agenda. Due agende insomma. Di cui una di ben 16 mesi. Poi, per rimanere in tema, una sciarpa a stelle e strisce. Al diavolo la moda e i cliché, io dico. Me la avvolgo attorno al collo e metto in borsa le due Moleskine.

La sera, invece, prende la piega della minestra nei piatti. Ottimo, partiremo leggeri. Hai stampato i biglietti aerei? Il passaporto è qui, non scordarlo. Smettila di agitarti. Ma non mi agito, ho perso gli occhiali. Fuori piove, la nonna dice che ti chiama tra un attimo, vuole venire con te all’aeroporto. Hai preso i cerotti?  Ti stanno chiamando quelli della Vodafone, te li passo. Facciamo che ora voi tutti ve ne andate a letto e io rimango qui, accanto alla mia valigia. Non faccio rumore, e smettiamola con i preparativi verbali. Non voglio passare a Vodafone, domani vi lascio il mio telefono in carica e non toglietelo da lì per i prossimi dodici mesi.

*

Valigia grigia a strisce blu, dobbiamo parlare. Svuoto tutto e ci rimetto la metà delle cose. Venti chili come prima.

Penso che sono spacciata – io e lei pesiamo troppo insieme – che non può funzionare tra noi. Proietto sulla parete bianca del salotto scene irrequiete: alla dogana mi strapperanno il passaporto, poi taglieranno la valigia di traverso per estrarne le viscere colorate, infine mi indicheranno l’uscita con i loro indici unti di salsa barbecue. L’uscita verso la pista di atterraggio.

Vorrei essere già a New York a fissare i grattacieli, ma mi perderei il divertimento alla frontiera. E le dieci ore in volo sull’Oceano. L’Oceano con il quale vorrei avere a che fare, una volta atterrata sulla terraferma possibilmente.