Chi torna

Oggi è passata qui davanti una coppia di signore, una diceva all’altra “Libere libere, bisogna essere libere! Basta svirgolamenti.” Poco più tardi un signore é entrato solo di busto in libreria chiedendo notizie di Seneca. Ha detto proprio “Salve, ha notizie di Seneca?”. Poi ho fatto i conti delle spese della libreria, é venuta fuori una cifra assurda facendo la sottrazione tra l’incasso in cassa e le spese segnate. Per fortuna dopo un po’ mi sono ricordata di non aver incluso nel calcolo dei guadagni tutte le transazioni bancomat e carta, il POS insomma l’avevo dimenticato di aggiungere. In quanto denaro non liquido, l’ho sempre segnato a parte nel registro. Quindi alla fine i conti sono tornati tutti, le spese risultavano proporzionate all’incasso, che era più che buono per la stagione, ma mi sono resa conto che c’era un qualcosa di contraddittorio nel chiamare i soldi che ti passano fisicamente in mano “contanti” o “liquidi”. Un ossimoro bello e buono.

Tutto incluso

Si dai, un libro al giorno. Come no.

Non sarebbe stato poi così impossibile, di libri qui ne ho da vendere (eh). Solo che poi ho dovuto finire un po’ di contabilità estiva in negozio, i clip dei montaggi da consegnare con le correzioni, chiamare gli editori, richiamare gli editori che nel frattempo erano in vacanza, ordinare gli ultimi testi e per finire organizzare la mia partenza. Questa volta sarà indolore ma poco veloce, ho come l’impressione. E poi basta, sono andata in iper ventilazione e ora mi porto dietro gli strascichi di un’immensa influenza totale. Ma totale proprio, pacchetto all inclusive, anche i talloni secchi ho. Che poi, sta cosa dei talloni secchi mi sfugge, come sia possibile. Non vado al mare e non mi arrampico sugli scogli da almeno tre settimane e l’ultima volta non ho nemmeno fatto il bagno, quindi non capisco, dovrei avere la pelle morbidissima e invece. Seccume.

Agendine 1911-1929 /// LEONETTA CECCHI PIERACCINI

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Agendine non è un libretto.
Una volta al mese ordino, insieme al carico degli ordini dei clienti, due libri per me, come fossi io stessa un cliente (ed effettivamente è quel che sono, quando non vendo).
Il primo libro sul quale mi è caduta una fetta di attenzione è stato Mio salmone domestico, del quale ho brevemente, ma proprio poco pochino, parlato-scritto; quel che è insomma, c’è un artico letto di qualche settimana fa. Visto che la regola è non spendere più di un tot in libri mensilmente e, puntualmente, quel tot viene superato, duplicato, triplicato alla grande, sta volta ho ben mirato le mie scelte. Poi va finire che devo risparmiare sull’acqua e iniziare a bere quella ferrosa, dal rubinetto, invece della Levissima, ohibò.
Perché Mio salmone domestico? Perché sono rimasta incuriosita dal titolo. Ebbene si, faccio parte di quella categoria di persone che Anche l’occhio vuole la sua parte. Nel mio caso come grande occhio considero il cervello, ma vabbè. La collana Contromano di Laterza, raramente mi ha delusa, mi sono proprio lanciata ad occhi chiusi (bello contraddirsi), se non dopo una sbirciatina alla pagina dell’autrice. Ma non è Emmanuela Carbé che voglio inserire in questo post, non me ne voglia, magari un altro giorno.
Dicevo, Agendine 1911-1929 non è un libretto. Cosa offre la Sellerio? mi sono chiesta quel giorno, dopo aver prenotato il primo libro. Allora, in prima pagina ci stavano un sacco di Camilleri e Malvaldi, poi Manzini e poi ancora altri Camilleri. Proseguendo ancora il catalogo continua con un sacco di roba che profuma di carta giallina, un po’ ruvida. Non sono una feticista, non mi viene altra parola, del libro in se come oggetto. Mon mi curo particolarmente del loro stato di usura, forse delle orecchie sì e pure delle macchie di sugo, quelle pure, cerco di non lasciarne sulla carta stampata. Leggo e basta quello che c’è dentro.
Ad ogni modo, sul sito scorro pagina dopo pagina tra romanzi, racconti, saggi. Ritrovo Baroncelli, Ugo Cornia, Fry Varian, Tabucchi e Sergej Dovlatov, un autore russo del quale ho preso qualcosa a Luglio.
Dopo un po’ che stavo lì a leggere titoli e autori, comprare Leonetta Cecchi Pieraccini (e mi verrebbe da aggiungere “compagna e poi moglie di Emilio Cecchi”, ma questa cosa che la figura della donna è sempre o quasi subordinata a quella dell’uomo, non so, un retrogusto insipido me lo lascia sempre). C’è da dire che LCP, oltre ad essere coniuge di Emilio Cecchi, uno dei più grandi critici letterari del novecento, fu anche una pittrice con non poco talento e, ma guarda caso, anche un’eccellente osservatrice, come Masolino D’Amico, suo nipote, scrive nelle prime paginette d’introduzione.
Ecco, ed è un diario, un’agenda composta dalle note sui quaderni che lei stessa riempie nel corso di quasi vent’anni.
Mi ha incuriosito perché, oltre alle copertine, mi incuriosiscono le persone che smettono di parlare degli altri e iniziano a scriverne. Anzi, scriverle. Se poi il tutto riguarda una bella fetta di personaggi che hanno fatto la storia della letteratura italiana ne escono fuori cose così:

20 luglio
Cena alla trattoria Mangani con Alfredo Gargiuolo, Arnaldo Cantù, Mario Tutino. Cantù, ardente sostenitore di ideali lirici, dimostra che è obbligo contentarsi della povertà se si vuol fare della vita, una poesia.
Tutino subordina la poesia alla ricchezza, e progetta allevamenti di struzzi insieme a combinazioni commerciali artistiche. Cecchi polemizza con tutti e due, mentre Gargiuolo ascolta illuminato da quel suo sorriso divertito che lo ingiovanisce. Conclusione: torneremo a cena da Mangani fra dieci anni per misurare la riuscita di ciascuno. Tutino, fedele ai suoi propositi di necessaria agiatezza, conclude: «Si vedrà chi di noi arriva in automobile».

O ancora:

9 Marzo
Spadini, Soffici, Cardarelli e Baldini giuocano a scopone. Cardarelli sta vincendo e allora dimostra che il giuoco sta soltanto nell’abilità del giuocatore: poi perde, e allora la colpa è tutta nell’avversità delle carte. Lo Spadini a sua volta sostiene ch’egli vincerebbe indubbiamente se sapesse contare; ma siccome non sa far neanche le somme è costretto a perdere.

Questa é del 30 Settembre:

Sono disturbata dalla morte del più bel pesce rosso della nostra vaschetta. Gli animali tenuti in casa assumono un’importanza di mito; e il nostro attaccamento alla loro esistenza diviene facilmente superstizione.

Sono due giorni che mi porto dietro ovunque vada Agendine. Ha iniziato ad avere gli angoli morbidi e pieni di peluchetti bianchi di cellulosa. Chissà tra cent’anni di chi si parlerà nei libri della Sellerio. Non sono scettica, mi auguro perlomeno che la loro produzione di copertine sia sciupabile non più di quella di adesso.

Gli effetti del mare

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Oggi c’è questa cosa qui, ovverosia il montaggio del videoclip che ho realizzato (sto cercando di realizzare senza implodere). E quindi, niente libri, ma solo un bel contorno. Giusto il tempo di cambiarmi dopo la presentazione del corso sui social network, realizzato da alcuni bravi fioi di @IgersPrato e il sostegno ferroso di @isoladelbaapp, dai mettiamo le chiocciole che poi ci metto un collegamento sotto che sembrano vere, poi, quelle chiocciole.

Senza cena e alle spalle solo una specie di pranzo arrangiato con un pugnetto di riso con del nero di seppia, avanzato alla mia coinquilina, sono arrivata sui gomiti in libreria. È una di quelle giornate che preferirei essere a Roma, per sentirmi amalgamata al traffico, alle cose da fare anche non mie e al sudore degli altri. Non avere un mare a due passi eviterebbe strani giri di pensieri come «Domani mi faccio una nuotata» o «Un gelato sulla spiaggia? Ma si dai». Altrimenti chi li finisce gli ultimi due clip e la traduzione di un testo aziendale che sto rimandando da almeno un mese? Qui sull’isola-delle-vacanze, la sera, sembrano tutti perfettamente pettinati e freschi di doccia, io puzzo invece. Sono sicura che puzzo, puzzo di fretta e cose da fare, solo e soltanto mie.

Complicazioni

Com’è difficile tornare a fare le cose semplici come leggere in terrazza, cucinare a casa, lavare i piatti, mettere in ordine le cose mie. Era più facile non avere tempo per nulla perché dovevo fare tante di quelle cose, altre cose, ogni giorno, nell’agosto appena qui sotto. Chissà quando mi ci abituo a questa tranquillità di settembre. No, meglio non abituarmici, poi magari mi stufo, ripenso ad agosto e via nella nostalgia da fine estate. No no. Meglio l’autunno. E così tutta la mattina, un andirivieni di opinioni a caso. Eh, vediamo di non complicarci la vita, mi sono detta a pranzo, che stavo già andando in iperventilazione.

Quotidiario #31

Avrei voluto concludere il mese e questo diario giornaliero facendo una cernita, che bella parola che è cernita, delle cose che mi erano sfuggite in trenta giorni. Del tipo che mai ho scritto che ho letto soltanto quattro libri questo mese, un po’ pochino rispetto a luglio, o che la mia paga é di sei euro e mezzo all’ora o ancora che mia sorella ha iniziato a fare video su YouTube. Mi sarebbe piaciuto anche riuscire ad inserire foto o, che ne so, disegni fatti, raccontare di quanto è bello non solo attendere l’autunno ma anche assorbire più estate possibile. Non la schifo mica io, l’estate, nonostante l’afa insopportabile che ho trasudato da ogni mio post precedente, mi pare. Invece ora mi sembra inutile, che tanto quello che doveva succedere in un mese di certo non è appallottolabile in un giorno. Soprattutto se poi capita che in un giorno solo, le cose cambino come nemmeno un mese potrebbe fare.
Ecco, é successa questa cosa e non sono nemmeno in grado di spiegarlo.

Domani non accadrà nulla invece (se non che la nonna, la stessa che vent’anni fa mi portava in giro con guinzaglio e pettorina per il rione della città, compie niente popò di meno che 75 anni).
Riprenderò a pubblicare, forse quotidianamente, il due, dopodomani.
Buonanotte chiunque legga o abbia letto il Quotidiario di sta cippa.
Davvero, andate a letto che é lunedì sera.

Quotidiario #30

Che paura questa mattina, alle tre del pomeriggio, quando sono uscita a fare la spesa. Mi ero svegliata da poco, un’altra notte insonne, ma ormai va bene così che si sono abituati tutti, pure io. Il paese era deserto, nemmeno il panificio era aperto. E c’era questo autobus blu, all’incrocio dove si fermano gli autobus, dal quale scendevano i turisti con le camice colorate e i cappellini gialli, i zainetti. Ho fatto il giro del quartiere e sono tornata indietro ed erano una quarantina, tutti colorati, qualcuno con la cartina in mano. Si guardavano attorno stupiti, loro sotto il caldo, l’afa di fine agosto a farli sudare. Il supermercato era chiuso, il panificio pure, i negozi di costumi, la gioielleria, la pizzeria, tutti chiusi. Man mano che mi avvicinavo, dovevo girare lì all’incrocio, ho visto le loro espressioni più che smarrite, tristi. Uno di loro, un signore sulla sessantina, ha chiesto alla guida perché non ci fosse nessuno in giro e la guida, in un’inglese molto italiano ha risposto Because is Sunday and Sunday is the freedom day. Il giorno della libertà? Al di là della grammatica, a pensarci a come tutti ambiscano al lavoro per poi sognare le ferie sembra quasi che lavorare sia un controsenso subordinato. Uh che parole mi vengono in mente, mi sono detta. Lavorare per essere liberi di non lavorare, non lavorare e cercare un lavoro disperatamente e cose così, che si mordono la coda a vicenda e non solo la propria.
Poi vabbè, c’era poco da fare, ho steso i panni e rimesso in ordine alcuni file per il montaggio che dovrò iniziare a fare domani. In casa abbiamo due coinquilini in più da giovedì. Non li vedo mai, se non nel momento in cui voglio andare a fare una doccia ed il bagno é sempre occupato. La lavatrice l’ho rimandata per giorni fino a che stanotte alle quattro ho portato il cesto e messo a lavare il tutto in grande velocità nonostante tutti dormissero e non ci fosse nessuno ad attendere il proprio turno per la pipì. Che bella sensazione essere in bagno e sapere di avere non solo tempo per il bagno stesso, ma anche per guardare l’oblò della lavatrice con le bolle e i vestiti che girano dentro.

Domani è l’ultimo giorno di Quotidiario, ho pensato che, dopodomani, dovrò forse abituarmi a non avere più una sveglia interna biologica, che tra le sette di sera e mezzanotte continua a suonare in sordina come a ricordarmi che anche oggi di cose ne sono accadute, é ora di annotarle.
A partire da Settembre facciamo che apro una rubrichina piccina, un po’ come faccio su Instagram da Gennaio pubblicando una foto al giorno. Solo che qui potrei metterci un illustrazione al giorno o un libro al giorno. O ancora un outfit al giorno, ma questa cosa di vestirsi e far vedere per forza il ragionamento che c’è stato dietro, mah, non mi entusiasma. Sarà che in armadio ho si e no cinque magliette e un paio di pantaloncini e vestiti da mare che uso anche per andare a lavoro. Quindi no, non funzionerebbe.
Forse va a finire, o iniziare, che non faccio nemmeno nulla, o forse si. Ci penso, va bene?

Quotidiario #29

C’è un posto, e dico c’è perché c’è sicuramente tutt’ora, insomma dove a passarci ogni volta mi veniva da accostare la macchina, scendere e scavalcare la rete a bordo strada. Era un campo che si estendeva tanto in lunghezza quanto in profondità, l’unico diverso tra i campi di granoturco e pomodori. Mi venivano i brividi, quelli belli, ad immaginarmi mentre scavalco o faccio un buco in quella rete, per poi ritrovarmi dall’altra parte, tra i filari di pesche. Questo posto esiste tra Ronkonkoma e New York, sulla Long Island. Avevo visto gli alberi spogli a febbraio riempirsi di fiori a fine aprile per poi esplodere nel verde per tutta l’estate. Tra le foglie intravedevo le pesche, magari aprivo il finestrino, rallentavo un po’ se non avevo dietro nessuna macchina. In quel periodo facevo questa cosa che non potevo fare, che era andare da dove abitavo fino a Ronkonkoma, lasciare lì la macchina e in meno di un’ora raggiungere la Penn Station di New York in treno. Non avrei potuto farlo perché mi era stato detto che la macchina che guidavo aveva dei problemi con le lunghe distanze (infatti poi qualche settimana dopo persi una ruota al semaforo), ma mi piaceva troppo far benzina, guidare tra quattro corsie, seguire con lo sguardo pannocchie, pomodori E poi loro, le pesche. Arrivavo a Ronkonkoma, parcheggiavo e salivo sul treno come una comune abitante lavoratrice di quel posto che era l’America.
Comunque tutto ciò per dire che, poi, tra quei peschi ci sono finita a fine estate. C’era un cartello che si intravedeva tra i rami, l’ho notato più o meno a fine primavera. Come and get your peaches from the tree, c’era scritto. Così un fine settimana che ero libera portai un amico in quella che si rivelò essere una farm, una fattoria. Raccogliemmo pesche bianche, gialle e rosa, riempimmo tre buste fino a farle quasi scoppiare e pagammo la modica cifra di 10 dollari per l’espatrio con il bottino. Pezzo unico. Ce le portammo in spiaggia e mangiammo pane, pesche e formaggio guardando i surfisti di Blue Point. Avevo svelato quello che c’era al di là della rete ma nel corso dei giorni non ero riuscita a finire tutta la frutta portata a casa dalla raccolta di quel pomeriggio. Non erano più buone, si vedeva, ma a guardarle nel cestino tra un cartone del latte e i limoni spremuti mi metteva una sensazione di finito addosso, come se la situazione mi stesse sfuggendo di mano del tutto e non si potesse tornare indietro, una cosa stupida e per questo inspiegabile. Le raccolsi una a una, di nuovo nel sacchetto, e corsi in spiaggia. Al buio le lasciai sulla riva, l’alta marea di notte le avrebbe portate via.
Smisi di usare la macchina se non per andare a lavoro e al college o a bere un caffè a Westhampton. Qualcosa si era spezzato, ma non faceva male. Soltanto non esisteva più l’idea che ci fosse chissà cosa dietro quelle file di alberi da frutta. C’erano solo altri alberi da frutta, dietro gli alberi da frutta.
Due anni dopo, a cinquemila chilometri dallo stato di New York, guardavo con il cuore in gola attraverso le maglie di una rete una distesa di viti, coprivano il terreno fino al mare e non se ne vedeva il confine. Una proprietà enorme, due casette in pietra, un mini anfiteatro nascosto dagli alberi. Guardai bene, non vedevo peschi nei dintorni, ma l’uva era matura.

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Quotidiario #28

Oggi abbiamo continuato con le prove delle riprese. Pensavo di cavarmela in una settimana e invece sono venute fuori cose, chiamate idee, che hanno prolungato il tutto a due mesi. Non so come sia successo, ma ora mi ritrovo a cantare pure io. Tre canzoni registrate, un mini documentario e una decina di audio, ancora senza video. Non so se si capisce quel che scrivo, dico. Pure io a volte mi perdo. Comunque questa mattina ci siamo messi a cercare metodi alternativi al tripode, per sostenere il microfono in esterno. Sono poco attrezzata qui, me ne rendo conto quando mi ritrovo nel giorno delle riprese a costruire un cavalletto in rami di pino. Oppure, in mancanza di un’asta, ad appendere il microfono stesso ad una carrucola tra un albero e l’altro, sopra i musicisti. A fine giornata tiro un sospiro di sollievo, in qualche modo ce la siamo cavata benino, fino a qui.

Mi sa che é l’ultimo anno che mi isolo su un’isola. La prossima estate voglio isolarmi in un posto sociale e affollato, del tipo che per sentirmi nascosta non basterà chiudere la porta di casa. Dovrò fare esattamente il contrario di ora, che fuggo sugli scogli sotto la pineta o nei boschi sopra il paese, dovrò iniziare a socializzare probabilmente, allora si che mi sentirò sola, con tutte le idee variegate intorno.

Ad ogni modo domani alle otto starò raccogliendo uva.
Si dice vendemmiare
e solo al pensiero mi viene il buonumore, che torno tra il verde delle viti, anche solo per una mezza giornata.

 

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Quotidiario #27

Succede che sta per finire agosto e se c’è una cosa della quale posso veramente ritenermi soddisfatta, fino ad oggi che è il ventisette, é che non c’è un giorno di questo corrente mese che mi sia sfuggito qualcosa. Qualcosa che non riesca a farmi tornare a mente. Ricordo quasi tutto, o perlomeno una gran parte delle cose che sono accadute negli scorsi ventisei giorni. Per esempio un giorno sono stata al mare non lontano da dove abito e tirava tanto di quel vento che si stava meglio in acqua che fuori. Poi dal giorno dopo era come se fosse arrivato l’autunno, come se il vento avesse portato via lo scirocco stesso, ecco, questa cosa qui è accaduta l’undici di agosto.
Poi il ventitré, invece, alle tre di mattina, seduti sul marciapiede ancora umido di pioggia, a gambe incrociate mangiavamo un cornetto con -No. -No è un mio amico notturno come me, mi verrebbe da dire, o forse sono io che mi sono adattata bene al buio con lui che non ha sonno. Con -No, trattino enne o, a volte passeggiamo per le vie con le case basse o la costa fino a che l’orologio del campanile batte le tre o le quattro. Due volte è successo addirittura di arrivare alle cinque, fortuna che inizio a lavorare nel pomeriggio, io.
Si va al mare se non c’è vento, oppure si sale verso la parte alta del paese a cercare alberi da frutta o cespugli con more selvatiche, si parla poco, spesso solo di cose accadute o che vorremmo accadessero. Di libri, film, viaggi e quasi mai di persone attorno a noi. Niente ragionamenti filo-filosofici, cinismi, giri di parole che di solito vengono a galla dopo una giornata passata tra la gente, quando si vuole dire tutto come lo si pensa e avere pure ragione. Niente sfide su chi ne sa di più, con -No. Io gli dico È perché non sei capace di lamentarti, tu. E -No ride, allarga le braccia o alza le spalle. Che bello.

Poi certe notti capita che porto giù qualcosa da mangiare, da casa, allora ci si siede e si mangia uva, pesche e frutta che si sbuccia, albicocche, quando c’erano.
Non ricordo una sera, con -No, senza frutta.

Ne ricordo molte invece in cui guardiamo tornare i reduci delle serate nei locali e discoteche. E noi sulla panchina ad accumulare noccioli, bucce e ore di sonno perso, da smaltire dormendo due ore in più la mattina. Non si discute, con lui, che ad Agosto sia più bella ed efficace la notte rispetto le mattine afose e affollate di turisti. Poi mi sono abituata a leggere, disegnare o tradurre mentre fuori è buio e a casa tutti dormono, il fatto che non ci sia nessuno sveglio attorno mi da una sensazione di tempo guadagnato che a spiegarla parole, perdo solo tempo, qui.