#DECINE
Luglio, Luglio,
sii gentile e dammi il tempo per accumulare una decina di cose insieme. Una alla volta va benissimo, una al giorno.
Non viene considerata la pazienza,
la maestria nel creare coreografie di cartone su altro cartone,
non viene più nemmeno criticata l’andatura, ammirato il passo spedito,
la città si crede piccina, si veste di verde, colora le gonne delle sue abitanti e fa crescere i baffi e le barbe agli uomini.
Le pozzanghere a terra hanno da ridire sul colore della pioggia. Nel Central Park ci si sente a casa quanto sulla cinquantaquattresima,
Linea C, intere folle scendono alla fermata prima di Wall Street, lavoratori che forse hanno bisogno di sgranchirsi le gambe prima di sedersi davanti al proprio Mac.
Produttori, spazzini, commercialisti, insegnanti, disoccupati, camerieri in infradito e politici.
Li guardo, mi immagino ancora più parte di quella Domenica pomeriggio, anche se già ci sono dentro.
Accanto a me, al semaforo, la gente mangia il proprio pranzo in vaschetta, apre e chiude il quotidiano, guarda in alto, avanti, sbatte le ciglia per la polvere,
la sorpresa, la stanchezza. Siamo fermi sulle strisce, pronti per partire, scatta il Bianco,
per noi su due piedi è il via.
Ho ripreso a contare i secondi per attraversarle, le Street e le Avenue. Undici, in qualsiasi caso.
Il trenta giugno è la metà dell’anno, ed è un po’ come giungere alla fine del primo capitolo.
Davanti alle scuole chiuse continuano a tagliare l’erba. Dormo con la finestra aperta da una settimana, la nuvola Tropicale di umidità ha fagocitato la Long Island.
Mi piace, non è l’umido Italiano, quello che ti si appiccica addosso – è proprio un vento acquoso, che non facendoti respirare ti lascia una sensazione di fresco sulla pelle.
Immune ne è la Città dove i grattacieli riparano dal sole abbracciandoti tra pareti di vetro e cemento bollenti.
Il trenta giugno mi dice che siamo al cinquantapercento. Sei mesi sono scivolati, e con loro le coniugazioni, i gerundi e il participi, di qualsiasi tipo.
In spiaggia, con la sabbia di vetro tra ogni giuntura, le onde a rendere l’Oceano bianco, i bambini senza fretta, mamme con meno tempo, coppie, jeep dalle grandi ruote.
Non viene considerata la pazienza, quella impiegata per rendersi conto di essere a casa un po’ ovunque.
Sui marciapiedi, a fine giugno duemilaetredici, vendono Avocado, pesche e magliette I cuore New York,
hanno calze a righe, impermeabili gialli, ombrelli aperti ancora prima di sapere che pioverà, se pioverà.
Turisti sui Bus rossi e gialli a due piani scattano foto ad altri turisti, i taxi superano altri taxi.
China Town non è mai stata così viva e a pensarci mi vien voglia di tornare a casa in Italia, prendere per mano tutti coloro che si sono rifiutati di assaggiare involtini primavera e anatre laccate
e portarli a mangiare al Jing Fong Restaurant sulla Elizabeth St. Offrirei io, la prima sera.
Gli abitanti della Grande Mela si mescolano tra loro, non si conoscono ma si riconoscono. Fanno finta di non avere tempo, evitano il centro dei marciapiedi e Times Square.
Si nascondono nei parchi o nei Deli, dopo essere usciti dagli uffici, cantieri, laboratori.
Pagano i Cinema dietro casa ed evitano Broadway perchè il denaro è tempo.
I grattacieli più alti, per loro, resteranno sempre quelli dell’Undici Settembre.
Entrano negli Starbucks, escono dalle metro, vivono nel Bronx e lavorano a Manhattan, fumano di nascosto dai figli, non si lamentano dell’aria condizionata nei treni, uffici e negozi. Piuttosto hanno tutti un maglioncino in borsa, una confezione di fazzoletti e le donne, quelle si, sempre un rossetto.
Li accomuna la voglia di restare dove sono.