Poi, poi, poi

È passato a trovarmi, con un Kebab, due lattine di Coca-Cola. Di lui ho scritto qui quasi otto anni fa, quando lavoravamo entrambi sulla stessa isola, durante la stagione estiva: lui in ristorante, io in libreria. Ci si tirava su di morale a vicenda mangiando frutta sulle panchine a mezzanotte. Ironizzava sulla sua stessa condizione di schiavo da fornelli, anche dopo essersi fatto massacrare per quindici ore in cucina dallo chef di turno. Io non avevo granché da lamentarmi, invece. Lavorare in libreria mi piaceva, ma condividevo con lui l’orario continuato sei giorni su sette, dalle otto di mattina a mezzanotte, soltanto una mattina libera. Quelle ore notturne, prima del sonno, erano le uniche ore d’aria per entrambi.

Non è cambiato nemmeno un po’: mentre mi parla muove le braccia e urta uno scatolone appoggiato accanto la portafinestra, fa cascare una pila di vestiti piegati, si mette a ridere. Vorrei essere lui in quell’istante, mentre lo guardo e mi chiedo se sia questa l’amicizia, quella cosa che scatta del tutto quando fai entrare una persona in casa a distanza di anni e all’improvviso è ieri, anzi, l’altro ieri. Anzi, l’estate 2015. A saperlo prima che quasi otto anni dopo saremmo finiti a vivere a cinque minuti di distanza, tempo di mettere la moka sul fornello. Volendo potrei chiamarlo anche ora che è tornato a casa per dirgli “hai scordato di finire la tua lattina di coca”. Sono sicura che tornerebbe.

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