Martini sul monte

E tempo fa, quando vivevo a Roma, dove la mia cucina e camera da letto si affacciavano su un cortile interno, che di cortile aveva solamente alcune piante in vaso, mi ritenevo davvero una persona fortunata. L’altra finestra dava sul cielo aperto, su un palazzo-dormitorio enorme, un modulo da dieci piani e i panni stesi sui fili del terrazzone. Vedevo il tutto attraverso le sbarre di ferro smaltato di bianco che la precedente inquilina aveva fatto mettere pur essendo al terzo piano, forse per paura di cascare giù. Una finestra di sessanta centimetri per quaranta, quanta paura se ne può avere?

Ad ogni modo questo appartamento di luce ne aveva abbastanza, ma non abbastanza per i miei gusti. Quel vecchio condominio che avevo imparato ad apprezzare, nonostante la muffa sul pianerottolo e tutta quella grattata via dalla camera da letto e bagno, una volta entrata nei 35 metri quadri che mi ostentavo a chiamare “miei”, mi stava chiedendo luce. E luce era aria, nonché un martello e uno scalpello: un buco nella parete. Piccolo, per una finestrella. Mi ero convita che avrei trovato un telaio, l’avrei adattato o fatto su misura. La mia nuova finestra si sarebbe affacciata sul Tevere e su un fianco della Centrale Montemartini, il museo in cui da anni passavo tutti i pomeriggi senza meta, quando faceva troppo caldo per stare fuori o troppo freddo per rimanere in casa davanti al radiatore. E c’era questa tessera, la MIC Card, che poteva essere richiesta dai residenti, che mi permetteva di farlo gratuitamente: entrare in quel Museo Capitolino tutte le volte che volevo, al costo di sconfiggere la pigrizia e uscire di casa, fare cinquanta metri, prendere fiato e immergermi in uno dei posti più stoici e senza tempo di tutta Roma.

Dopo quattro anni di affitto, convinta che in quella casa ci avrei passato il resto della mia vita, mi sono finalmente decisa: era arrivato il giorno di iniziare a scavare, anche se in orizzontale. Fosse andata male, avrei messo un quadro alla parete, anzi l’avrei incollato con il silicone, per scordarmi il tentativo fallito.

Il primo strato fu di emozione e polvere, il secondo di segatura pressata. Arrivata al mattone rosso, a due centimetri dalla superficie bianca, qualcuno stava già bussando alla mia porta.

Quando arrivava Calamassi, poco importava cosa io stessi facendo: lui se ne sarebbe stupito. Era fatto così: la prima volta che è venuto a trovarmi ha chiesto se poteva entrare in bagno a vedere come si stava, in un bagno costruito sul balcone. Non l’ha nemmeno usato, ci è entrato e uscito dopo un paio di minuti. Si presentava a casa mia con cadenza regolare, Calamassi, ogni tre o quattro mesi. Sapevo che per prima cosa avrebbe sempre aperto la porta del bagno e poi si sarebbe lanciato a terra per giocare con il mio cane. Nel frattempo avrebbe dato una sbirciata fuori, giù dal ballatoio, per controllarne l’altezza che di volta in volta, no, non cambiava sorprendentemente, e alla fine, posando una scatoletta di cartoncino bianco con dentro due dolcetti al cioccolato, mi avrebbe detto qualcosa come «Ti ho già pagato l’ultimo lavoro, vero? No, perché altrimenti ti pago in pasticceria» oppure «Dai, che oggi dobbiamo produrre, ti ho già raccontato di quella volta che mi sono addormentato ubriaco in banca, di notte, sotto casa di Chiara? No? Magari ci scrivi su tu una canzone, mentre io finisco la mia, sulle Arance, quelle fresche che si portano di solito in carcere, hai presente?». E io gli passavo subito la chitarra, a Calamassi, Giacomo all’anagrafe, età non pervenuta.

Poi alla fine, la canzone l’ho scritta
E Calamassi ha scritto la sua, sulle Arance (affidando a me il compito di girarne il videoclip)

Quel pomeriggio non andò diversamente: i dolci al cioccolato nella scatola aspettavano il caffè sul fuoco, Giacomo e Pangea a terra, a raccogliere la polvere di intonaco, nonché quello che fino a poco prima faceva parte del mio muro.

– Perchè non approfitti della vicinanza con la Centrale Montemartini? Ci vai, ogni tanto?

Cercai di ignorare il suo tono inquisitore. Eravamo abbastanza amici da condividere tra noi i rispettivi fallimenti, ma i giudizi? Chissà come mai mi assaliva un pudore enorme, di quelli brutti e nudi, nel dire che noi – io e la Centrale Montemartini con tutto il suo museo di busti, sarcofagi e arazzi – eravamo così in confidenza, che non bussavo nemmeno per entrarci. Ci andavo perfino spettinata e il custode pelato all’entrata, un ormone enorme nel suo giubottino catarifrangente, ormai mi salutava con un cenno della testa, alzando appena lo sguardo, quando mi vedeva attraversare il cancello di ferro battuto nero. Mi faceva entrare dentro perfino con Pangea al guinzaglio.
Più che vicini di casa, quasi coinquilini sullo stesso Viale, io e la Centrale Montemartini. Viale Ostiense, che bel posto, ci vivrei, se non ci vivessi già, mi dicevo in quegli anni.

Quando lasciai Roma, la mia casa con bagno in balcone e l’ultimo impiego presso un grande teatro nel quartiere Flaminio, non pensai nemmeno di coprire quel buco appena accennato sulla parete. Inutile dire che avevo abbandonato la missione a metà, distratta nel tempo da cose che forse non si sarebbero affacciate su musei e fiumi, ma mi avrebbero comunque portata abbastanza lontano non solo con lo sguardo, attraverso una finestra.
Il giorno prima di consegnare le chiavi mi ritrovai a prendere un caffè nel bar non distante dal teatro dove avevo lavorato per due stagioni. In quel quartiere chiamato Monte Mario la disparità tra la Roma bene e tutto il resto era meno marcata rispetto ad altri quartieri nei dintorni, vigeva la regola del fatti i cazzi tuoi e vivrai cent’anni, prima ancora del buongiorno un caffè per favore. I soliti clienti del pomeriggio, rumore di tazzine tirate fuori dalla lavastoviglie, il chiacchiericcio romano nell’aria.
Salutai la signora Antonella, piazzata al banco Sisal quel pomeriggio, il cameriere di turno e il solito barista coi baffi. Come va? Tutto bene? Staccato presto oggi? Glissai sui dettagli e decisi di non rivelare a nessuno di loro che quello sarebbe stato il mio ultimo caffè lì, anche perchè quella che si sarebbe poi scoperta essere Agata di certo non avrebbe gradito tutta quella caffeina. O forse sì, visto che ogni volta mi chiede di assaggiare, quando ne sente il profumo.
Non dissi che lasciavo Roma e che quindi non sarei più passata di lì per pagare le bollette, mentre al banco già sapevano cosa avrei bevuto nell’attesa. Signorina, che bella cera, anche stanotte ha chiuso tardi l’Olimpico? Che dicono a Roma Nord? Come se lì fossimo a centinaia di chilometri a sud, e non a cento metri in linea d’aria dal teatro che potevo intravedere in lontananza, oltre gli alberi, dalla porta del bar.

Tre di mattina, io, l’anziano barista coi baffi e un doppio caffè per tenerci compagnia: prima del sonno, per me e prima del resto del turno, per lui. Più di mezzo migliaio di notti così.

Seduta al tavolino accanto all’entrata aspettai il macchiato caldo nella solita tazza grande, ma Antonella arrivò con un Martini. Si asciugò la fronte con un avambraccio e mi guardò di traverso, come se le stessi nascondendo qualcosa.
«Te lo offre quel tipo laggiù» ricordo che mi disse indicando con il mento un gruppetto di persone al bancone, mentre appoggiava il bicchiere pieno di bollicine con un’oliva, trafitta da un lungo stuzzicadenti, «non è un pischello, non lo conosco, se s’accolla famme un fischio».

Un Martini alle tre del pomeriggio, la mia pancia di cinque mesi, appena accennata sotto il vestito, invisibile sotto il tessuto leggero e ampio di quel fine giugno.
Un omone grande, pelato e con un giubottino catarifrangente arancione senza maniche. Vidi la sua mano alzarsi sopra le altre teste. Nell’altra un Martini, identico al mio.

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