
Ogni volta che torno in paese tutto è un po’ più offuscato. Sciacquo i bicchieri perfino dopo che qualcuno li ha già lavati, tolgo la polvere dove poco prima qualcuno ha passato gli Swiffer monouso.
Che poi, dico, io a casa mia, quando non ho voglia di tirare fuori il mocio Vileda uso i tovaglioli, non so se è normale, forse no però lo faccio. Invece di spendere cinque euro per della cellulosa pettinata e arricciata da passare sugli stipiti, non so, preferisco i tovaglioli, o se proprio non ci sono, la carta igienica.
Comunque mi sono persa. Eppure mi sembrava di essere partita bene con la nostalgia, l’offuscamento.
Insomma, sono nel mezzo del Friuli, non c’è niente (e il niente in Friuli comprende i campi, canali d’acqua spesso vuoti e qualche trattore), nemmeno un gregge di pecore. Qui dovrò passare altri dieci giorni, un po’ per scelta e un po’ per sfinimento. È Roma che mi ha sfinita e io vorrei soltanto passare più tempo possibile fuori, magari nei campi a raccogliere radicchio, ce ne fosse.
Continuo a ripetermi Febbraio è breve, più breve, mentre aspetto la primavera avvolgendomi in doppie sciarpe e disegnando con i guanti, anche negli autobus notturni. Soltanto che questa fretta di passare da una stagione all’altra non mi sembra nemmeno tanto sana.
Le giornate passano veloci e il giorno dopo è uguale al giorno prima, eppure sul desktop c’è sempre un file nuovo in più e sul comodino il segnalibro avanza tra le pagine. Ho smesso di scrivere l’anno scorso, sì, ma a dicembre mi sono comprata un calendario, di quelli che stacchi i giorni uno ad uno, così a gennaio ho raccolto trentuno foglietti pieni di parole e ora mi obbligo con sadico piacere a scrivere qualcosa, qualsiasi cosa, prima di dormire. Non so se aiuta, ma di certo ho smesso di guardare il soffitto, crollo tra le coperte con Gea che rosicchia qualche cappuccio di biro.
Le dita di mia nonna stringono il manico della caffettiera, l’insalata cresce nell’orto anche a gennaio e si può tenere acceso il riscaldamento anche tutto il giorno, nessuno mi dirà mai nulla, sono in famiglia,
non fare la vittima mi dice mamma mentre serve in tavola una cena che non mangerà. L’affitto te lo paghi a Roma, mica qui, mangia.
Sbuccio un’arancia, salgo al terzo piano, la nostra casa è di tre piani e il terzo è il mio, o perlomeno ci vado soltanto io lì, quando torno.
Accendo il Macbook, mi siedo sulla stessa sedia imbottita che avevo a quattordici anni e inizio a fare quello che faccio a ventisette, disegno.
Le immagini compaiono nitide e le imprimo sullo schermo facendo finta di avere in mano pennelli, pantoni, acquerelli. Ho imparato a usare la tavoletta grafica e sulla scrivania non ci sono più trucioli di matita, non è triste, è pulito. Non mi passano nemmeno di mente i tovaglioli.
Non mi manca niente, mi dico, forse un po’ di dignità e -per fare la modesta- di ingenuità, qualche libro sugli scaffali, ma so che li ho portati a Roma con me, cinque anni fa. Lì stanno, magari quelli letti, piano piano, li rispedisco qui? Ci penso.
Mi sto educando a non rimanerci male se torno qui e gli alberi non sono gli stessi e le prospettive con case e strade nemmeno. Cresco e sembra non accadere nulla, ma c’è una fatica sottile, quella di rimanere nelle idee del corpo che cambia e contemporaneamente di restare coerente con quello che ho intorno.
Questa volta è gennaio, la prossima sarà maggio, magari giugno. Forse gli alberi li taglieranno al prossimo arrivo, giusto per cambiare qualcosa. In pianura tagliano tutto prima o poi, che sembra non esserci mai abbastanza spazio con tutto quell’affollamento di distanza, tra un paese e l’altro.
