Allora io non bevo il caffè per abitudine, a me piace proprio il sapore, quindi lo bevo quando ne ho voglia, non quando ne ho bisogno, che secondo me è una cosa sanissima ma meglio non dirlo in giro per non offendere i dipendenti.
Ogni volta che lo spiego, anche a chi mi chiede «ma quindi tu davvero non hai bisogno di caffè la mattina?» mi viene da dire che non faccio nemmeno il cambio stagionale e richiudo i calzini con ago e filo quando vengono i buchi. A volte mi mangio pure il radicchio direttamente dall’orto e da un po’ non mi dicono di lavare le mani prima di mangiare.
Avevo una collega qualche anno fa, quando lavoravo in un negozio di vini e taralli nel centro di Roma, che due o tre volte a turno bisognava bere un caffè insieme. Nel magazzino avevamo una di quelle macchinette che danno in affitto e tu ti devi soltanto preoccupare di comprare le cialde e al massimo pulire la muffa nel serbatoio dell’acqua.
Per me la pausa non era il momento più bello della giornata, c’era chi fumava, chi usciva a fare una telefonata, io rimanevo dentro a togliere le strisce di gomma nera a terra, con il piede avanti e indietro. Non fumavo, non avevo nessuno da chiamare, volevo soltanto tornare a casa al più presto. Però c’era questa collega, che quando io sono arrivata in quel negozio lei era già lì da qualche mese e si sentiva esperta conosceva tutti i posti dei prodotti, mi diceva con tono severo dove andavano i limoncelli, le grappe. Non era mai troppo allegra, ma si muoveva con agilità tra gli scaffali e serviva ogni cliente come se fosse una faccenda personale da risolvere, soltanto in pausa, quando diceva “caffè?”, io rispondevo “perchè no” lei faceva una piroetta, si toglieva il grembiule e piena di gioia scompariva nel magazzino per poi tornare con due caffè in tazzina di plastica: il mio normale, il suo lungo, lunghissimo, quasi fino al bordo.
Ci mettevamo con i gomiti sul bancone della cassa e se non entrava nessuno in negozio passavamo più tempo a mescolarlo, il caffè, che a berlo. Ad ogni modo finivo sempre prima io e restavo con il bastoncino in mano a raschiare lo zucchero dal fondo. E comunque non parlavo granché, lei invece mi racontava dell’università, della sua casa, del suo cane, del parrucchiere che aveva sbagliato il suo colore.
Non so perchè ma a me le cose come le attese piccole, quelle in fila mentre si sale in autobus o quando a cena finisco prima degli altri di mangiare e gli altri stanno ancora lì a rigirare la cotenna nella senape, a me hanno messo sempre un’ansia quegli spazi di vuoto in cui devi aspettare e basta, non puoi fare mica altro nel frattempo mentre quello davanti va a trenta all’ora in tangenziale. E ad un certo punto pure il caffè che mi finiva prima della collega, con lei che parlava mentre io scavavo il fondo di plastica, è entrato in quella posizione scomoda.
Anche perchè la collega aveva un carattere un po’ così, con giorni di facile conversazione e giorni difficili (difficili e basta, con o senza conversazione) e forse non le stavo nemmeno tanto simpatica, che ci può stare, ma di sicuro le piaceva mettere soggezione chiedendomi a memoria i prezzi aggiornati, quelli delle offerte e pure quelli dei negozi concorrenti. Poi in pausa ci prendevamo il caffè, per due minuti tutto tornava a posto, ma non appena finivo l’ultimo granello di zucchero, lei riprendeva il suo status quo e se ne usciva con delle domande, mi faceva delle domande che io, non so perchè, me le rigiravo in testa per tutto il giorno «no, non si può così però, hai messo tu i liquori accanto il vino? Dolce e salato non vanno insieme, lo sai vero?» e niente, passavamo un paio d’ore in silenzio a sistemare la merce senza capire chi delle due si fosse offesa.
Per un periodo ho perfino pensato di farmi spostare di negozio, stavo lì che pensavo
chiamo la direzione, non la chiamo? Ma poi che dico, che ho una collega che ha gli sbalzi d’umore prima e dopo la pausa caffè?
Allora un giorno di quelli difficili, dopo aver sistemato vedendola scomparire nel magazzino mi sono affacciata e ho detto “lungo!”.
Quando è uscita, le due tazzine fumanti in mano e piene fino all’orlo, l’ho capito subito che potenzialmente da lì in poi avrei potuto diventare la sua migliore amica, aveva un’espressione che soltanto la domenica mattina dopo la colazione a letto.
Sempre in tema caffè, avrò avuto sette anni e nonna mi faceva inzuppare i biscotti nella sua tazzina. Poi il caffè se lo beveva lei, ma lasciava sempre il fondo (che svuotava poi fuori dalla finestra in giardino). Un giorno le ho chiesto perchè non lo finiva e lei mi ha risposto storcendo il naso che no, il caffè dopo i tuoi biscotti dentro no, brrr, no.
Ho pensato nonna fosse schizzinosa di me e a forza di pensarci lo sono diventata io, schizzinosa. Per anni non ho bevuto dallo stesso bicchiere di nessuno, bottiglie nemmeno per sbaglio. Le forchette lasciamo stare, che tra i dentini sai quanta roba va a finire, se poi è roba tua, mica me la mangio io. Ho patito la sete nelle gite in montagna dopo aver finito il mezzo litro di acqua in borraccia, non ho mai assaggiato dolci, torte, gelati altrui e il sugo se veniva mescolato con lo stesso mestolo leccato un attimo prima, ecco lì inventavo una scusa qualsiasi per non mangiare.
Poi dopo un po’, negli Stati Uniti, mi è passata la schizzinite.
Un mese fa ero a pranzo da nonna e mi è venuto in mente tutto questo, così le ho detto quella cosa delle briciole e che pure io sono stata schizzinosa per un grande periodo, dieci anni forse, poi nel 2013 ho dovuto attaccarmi alla stessa bottiglia di un gruppo Scout nel Connecticut, altrimenti tornavo a casa con i reni secchi, e ho imparato nonna, le ho detto, ora puoi anche sputarmi nel piatto mentre parli, mangio lo stesso (magari poi non ti rivolgo più la parola però), e ho lasciato tutto il discorso così, un po’ sospeso e senza una domanda, ma dal suo sguardo era chiaro che aveva capito.
Si è girata abbassando il volume del televisore e mi ha detto che a lei il caffè con le briciole dentro non piace soltanto perché sa di farina cotta.