Nono giorno di dopolavoro (momento nostalgia)

[Da leggere ascoltando “At Last, Sunrise” di Maree Docia, possibilmente]

Ho sempre voluto vivere in città,
fin da quando, all’età di sei anni, mi hanno trapiantata dalla capitale di uno stato estero in un paesino di mille abitanti. Ci siamo trasferiti, intendo.
Son tanti, mille abitanti, dico tutti riuniti in piazza.
Inspiegabilmente la mia attrazione per le città è sempre stata forte e abbastanza invadente da invadere le opinioni altrui. Non che abbia grandi ricordi della metropoli in cui sono nata, sentivo che mi mancavano le persone intorno, il caos quello dei film, le luci delle macchine, degli aerei e c’era questa cosa che spesso ho minacciato i miei parenti di andare a vivere sotto il cespuglio tra la chiesa e il comune, nella piazza del paese.
Non c’era granché da fare in quelle campagne, soprattutto in inverno. Campi di granturco a perdita d’occhio dietro casa e strade che portano ad altri campi di granturco. Poi l’ho quasi fatto una volta, mi sono preparata lo zaino con un maglione e due paia di mutande e sono uscita in direzione della piazza sbattendo tre porte di seguito: quella della camera, dell’entrata e il cancelletto in ferro battuto in cortile.
Mamma è venuta a recuperarmi prima che arrivassi alla fine della via, chiedendosi ad alta voce e con le lacrime agli occhi cosa avesse sbagliato con me. Siamo tornate indietro piangendo entrambe, mi ha promesso che avrei avuto la città. Era l’estate dei miei nove anni e si gelava.
Ora la città l’ho avuta. Mi verrebbe da dire che l’abbiamo avuta tutti, tranne quelli che la promettevano.

(Mamma, se leggi, sappi che mi mancano i campi di granturco e il modo in cui mi acciuffavi per le orecchie)

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