Ieri sera, al teatro Vascello di Roma, Fulvio Abbate ha messo in scena il suo spettacolo “Il teatro degli oggetti”. Ieri sera era anche la sera in cui bisognava uscire, perché escono tutti, che fai non esci? Esci.
Al teatro ci sono andata con uno che si chiama Francesco, ma noi lo chiameremo felinoasiatico, che tanto gli è familiare come appellativo. Allora mentre aspettavamo che Fulvio Abbate iniziasse, felinoasiatico mi ha chiesto se avessi letto qualche recensione sul Teatro degli oggetti e io gli ho detto che no, non avevo mai visto nulla né letto nulla a riguardo e che sono venuta allo spettacolo un po’ a sorpresa, in incognita dalla stessa sorpresa, anzi. In realtà lo faccio spesso, questa cosa dell’ignoranza forzata, mi riesce bene e rimango perfino soddisfatta poi, una volta che non sono più (o non dovrei più essere) ignorante, alla fine dello spettacolo.
Il Tè-Progect nemmeno sapevo che forma avrebbe dovuto avere. Ho accumulato appunti presi negli autobus, ascoltavo le persone parlare una lingua mia che a volte non riconoscevo e raccontare cose che non ci sono più, indicare i confini delle case che sono diventate altre case, le storie delle mamme che tuttora continuano a scuotere, si dice cullare mi dicono, i passeggini con i loro bambini, per addormentarli, quasi per un ricordo genetico e mi è sempre sembrato strano che spesso il senso di nostalgia degli altri mi ha portata a pensare, ad essere convinta anzi, che io stessa abbia indicato i confini delle case che non ci sono più, che tuttora continui a cullare i miei bambini, per un’abitudine tramandata. Eppure io non ho bambini, non ho mai visto case rimpiazzate con altre case.
Scopro così che, per esempio, inspiegabilmente mi manca la cioccolata a bagnomaria nel pentolino sul gas, per poi glassarci le torte. Mai fatto nulla del genere in vita mia. Ed ecco che sento il grande bisogno di fare delle riunioni di condominio, che tanto siamo in cinque famiglie (io e il mio gatto, così come l’appartamento di sotto con i sei Bangladesh, valiamo tutti come singole famiglie), che ci vorrà a fare una riunione? Aprirei casa mia pure, preparerei un tè per tutti, ho almeno sette tazze a casa, più delle ciotole in ceramica, i bicchieri di vetro infrangibile che reggono benissimo l’acqua bollente. Poi si parlerebbe dell’andamento e della crescita dei limoni che stanno nella corte interna, dei gatti che ci cagano dentro, dei tubi che perdono vapore la sera, che fare con i panni e i calzini che cascano dai balconi di chi occupa i piani alti, cose così. Poi magari aprirei pure i biscotti al vino, li offrirei a tutti, che non si sente che sono al vino, la famiglia di Bangladesh non se ne accorgerebbe e io avrei solo fatto una bella figura.
Non ne so nulla io, delle riunioni condominiali. Se ieri Fulvio Abbate ha parlato di cose che custodiscono «uno spunto narrativo, forse perfino magico, epocale; le cose nella loro suggestione immediata, nel loro carico di memoria o di straniamento» (fonte: Clic), per me è solo l’inizio della fine dell’ignoranza. Io non c’ero negli anni venti, cinquanta, ottanta, non so nulla a partire dalle riunioni condominiali, fino ad arrivare a non ricordare nemmeno il colore della banconota da diecimila Lire. So però che, se un giorno si organizzasse quella riunione condominiale, offrirei ad ogni inquilino quei biscotti sopra citati e una tazza di tè nero alla liquirizia, e ciascuno avrebbe qualcosa da dire, non per forza da ridire.
Sai che certe volte anche io sto in “ignoranza forzata”? Qualche volta è pure meglio: concordo!
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