Quotidiario #29

C’è un posto, e dico c’è perché c’è sicuramente tutt’ora, insomma dove a passarci ogni volta mi veniva da accostare la macchina, scendere e scavalcare la rete a bordo strada. Era un campo che si estendeva tanto in lunghezza quanto in profondità, l’unico diverso tra i campi di granoturco e pomodori. Mi venivano i brividi, quelli belli, ad immaginarmi mentre scavalco o faccio un buco in quella rete, per poi ritrovarmi dall’altra parte, tra i filari di pesche. Questo posto esiste tra Ronkonkoma e New York, sulla Long Island. Avevo visto gli alberi spogli a febbraio riempirsi di fiori a fine aprile per poi esplodere nel verde per tutta l’estate. Tra le foglie intravedevo le pesche, magari aprivo il finestrino, rallentavo un po’ se non avevo dietro nessuna macchina. In quel periodo facevo questa cosa che non potevo fare, che era andare da dove abitavo fino a Ronkonkoma, lasciare lì la macchina e in meno di un’ora raggiungere la Penn Station di New York in treno. Non avrei potuto farlo perché mi era stato detto che la macchina che guidavo aveva dei problemi con le lunghe distanze (infatti poi qualche settimana dopo persi una ruota al semaforo), ma mi piaceva troppo far benzina, guidare tra quattro corsie, seguire con lo sguardo pannocchie, pomodori E poi loro, le pesche. Arrivavo a Ronkonkoma, parcheggiavo e salivo sul treno come una comune abitante lavoratrice di quel posto che era l’America.
Comunque tutto ciò per dire che, poi, tra quei peschi ci sono finita a fine estate. C’era un cartello che si intravedeva tra i rami, l’ho notato più o meno a fine primavera. Come and get your peaches from the tree, c’era scritto. Così un fine settimana che ero libera portai un amico in quella che si rivelò essere una farm, una fattoria. Raccogliemmo pesche bianche, gialle e rosa, riempimmo tre buste fino a farle quasi scoppiare e pagammo la modica cifra di 10 dollari per l’espatrio con il bottino. Pezzo unico. Ce le portammo in spiaggia e mangiammo pane, pesche e formaggio guardando i surfisti di Blue Point. Avevo svelato quello che c’era al di là della rete ma nel corso dei giorni non ero riuscita a finire tutta la frutta portata a casa dalla raccolta di quel pomeriggio. Non erano più buone, si vedeva, ma a guardarle nel cestino tra un cartone del latte e i limoni spremuti mi metteva una sensazione di finito addosso, come se la situazione mi stesse sfuggendo di mano del tutto e non si potesse tornare indietro, una cosa stupida e per questo inspiegabile. Le raccolsi una a una, di nuovo nel sacchetto, e corsi in spiaggia. Al buio le lasciai sulla riva, l’alta marea di notte le avrebbe portate via.
Smisi di usare la macchina se non per andare a lavoro e al college o a bere un caffè a Westhampton. Qualcosa si era spezzato, ma non faceva male. Soltanto non esisteva più l’idea che ci fosse chissà cosa dietro quelle file di alberi da frutta. C’erano solo altri alberi da frutta, dietro gli alberi da frutta.
Due anni dopo, a cinquemila chilometri dallo stato di New York, guardavo con il cuore in gola attraverso le maglie di una rete una distesa di viti, coprivano il terreno fino al mare e non se ne vedeva il confine. Una proprietà enorme, due casette in pietra, un mini anfiteatro nascosto dagli alberi. Guardai bene, non vedevo peschi nei dintorni, ma l’uva era matura.

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