Quotidiario #23

A guardare i filmini con i bimbi, i loro genitori, altri genitori che non c’entrano nulla con i protagonisti di quel filmino, io starei ore. Mi piacciono i dettagli e le cose in primo piano, mi piace l’attenzione che ci mette chi filma, il modo in cui attentamente mette a fuoco o sposta l’inquadratura da una cosa all’altra. Farei proprio una terapia d’urto, questa dei filmini d’infanzia. Non miei, io non ne ho.
Io da piccola, nel 94 per esempio, nemmeno lo sapevo che si potesse avere in mano qualcosa con i tasti diverso dal telecomando della tv. Mia nonna mi metteva sul letto, sprofondavo tra i cuscini e i giocattoli di stoffa che mi cuciva e guardavo in loop il Re Leone in inglese con il doppiaggio mono-voce sopra. E i sottotitoli in turco sotto. Che poi, non so perché erano in turco, non leggevo nel 94, è mia nonna che ogni volta mi diceva che a forza di guardare sempre la stessa cassetta finiva che imparavo a leggere il turco e allora pensavo che era turco, quello scritto in sovrimpressione. E insomma, di filmini a me da piccola non ne hanno fatti, ce ne sono giusto un paio con mia sorella a due anni, del 2003 tre forse, e io intorno che saltello, cerco di entrare nello quadratura, faccio le boccacce e cose così. Una bambina con i capelli tagliati a caschetto, i gomiti sporgenti e sbucciati, le ginocchia non é che si consumassero tanto quanto i gomiti, ricordo. Niente di particolare, se non una macchina violacea sulla coscia sinistra. Ci sono nata con quella voglia, é cresciuta con me, mia nonna la nascondeva con un angolo della coperta azzurra nella quale mi portava fuori nel primo mio primo anno. La nascondeva perché tutti facevano domande nel quartiere, le vicine scendevano giù dal condominio quando vedevano mia nonna con me in braccio. La mamma dov’è? Torna. Com’è piccola, troppo piccola, mangia? Chissà che rispondeva lei. Perché se mancava il papà, e mancava, era normale. Tutti i papà prima o poi venivano a mancare nell’ex Unione Sovietica, ma anche non ex. Le mamma c’erano, la mia c’era e non c’era. Partiva e tornava. Poi, alla fine, non so se sia rimasta io con lei o lei con me. Ora c’è.
Che ne sapevo io che nascere di appena due chili e mezzo, senza incubatrici e con la politica del latte in polvere, fosse un peso per chi quei due chili e mezzo lì vorrebbe farli diventare tre, quattro, dieci, veder sbucare i dentini e le trecce, a quei due chili e mezzo. Vedere perfino le ginocchia sbucciate sarebbe stato bellissimo e chissenefrega della gamba, deve aver pensato mia nonna la primavera che iniziai a camminare. Mi mise un paio di pantaloncini, mi tolse la pettorina (portavo la pettorina con una targhetta perché tutti i bambini la portavano, sia mai che cascassero nel canale di scolo) e le vicine all’inizio venivano da lei, dalla nonna, a dirle che mi ero fatta male, che avevo una macchia sulla coscia, che doveva stare attenta. Ma mica va via, rispondeva lei riferendosi alla macchia e non a me che correvo già attraverso il campo di cotone oltre la strada.
Io, se mi ricordo tutto questo lo devo anche a chi stasera, davanti ad un piatto di pasta in rosso e i piedi stesi sul divano-letto, mi ha fatto vedere i propri di filmini dell’inizio degli anni novanta. Lì c’erano papà e mamme con telecamera in mano, un bimbo paffutello, la sabbia, il mare, i costumi a vita alta, gli amici ventenni che sembravano grandi grandi e case in costruzione, futuri in costruzione. Mi sono sentita di esserci anch’io.

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