Non è che poi ci fai l’abitudine?
Quando ero piccola, così piccola da meritarmi ancora in pisolino pomeridiano, mia nonna mi veniva a prendere all’asilo.
Mi prendeva quasi sempre in braccio e mi portava così a casa, un chilomentro più a ovest, nel quartiere-dormitorio, dove abitavamo.
A volte le chiedevo di camminare, accadeva più o meno a metà strada quando tenendola abbracciata con le mie dita avvertivo la schiena della nonna bagnarsi di goccioline di sudore. Allora lei mi metteva giù a terra, ed io -spesso a malavoglia- facevo qualche passo mentre tra me e me forse valutavo il compromesso a piedi da sola-senza sudore appicicaticcio o in braccio sopportando la sua schiena umida.
Attraversavamo un enorme campo, a quel tempo terra di nessuno. Lo chiamavamo il campo delle coccinelle perchè su ogni ciuffo d’erba se ne trovavano almeno un paio. Mi piaceva ed alla fine sceglievo quasi sempre di camminare e cercare quei piccoli insetti, lasciavo solo il mio zainetto alla nonna che silenziosa mi seguiva, guidandomi verso casa.
Non è che poi ci fai l’abitudine? non me l’ha mai detto, lei. Ci pensavano le vicine di isolato, che ogni tanto mi vedevano in groppa alla povera nonna
che mai non mi diceva no.
Osservavano, ci guardavano ed esclamavano dalle terrazze, con gli annaffiatoi in mano:
“Sempre in braccio alla tua nonna anziana, non è che poi ci fai l’abitudine?”
Passati i miei 5 anni in braccio a lei, i sette per mano, ed i nove mentre mi facevo accompagnare in bici a scuola prima di arrivare ai 14, al primo autobus da sola,
a diciotto pascolavo a qualche centinaio di chilomentri da casa ed a ventuno devo essermi così annoiata (?) da finire America.
Mica sta grande abitudine a farsi trasportare da qualcuno, semmai dalla situazione.
E le vicine? Loro saranno ancora lì, a piantare gli stessi gerani rossi in terrazza ogni primavera, per abitudine.