Pancia Oceanica

[La cartina lì sopra indica chiaramente il Pesce-Isola sul(la) quale mi trovo. Dalla mia finestra -del bagno- vedo un pezzetto di baia Oceanica, che comunque non è Oceano, ma la sua pancia che rientra creando una laguna. Pancia, capito?]

Dai che forse i congiuntivi riesco a metterli in croce
o almeno in riga.
Ci provo, va bene?
Ma parto spezzando le frasi,
che già a metà si concludono senza virgole ne punti.

Sono in anticipo da questa parte del mondo,
avrei il tempo di inventare anche nuovi colori,
ma c’è spazio solo per le nuove vocali
o al massimo qualche consonante che proprio a pronunciarla
ti viene da corrugare la lingua stessa.

 

Non è poesia, mercoledì non è il giorno giusto,

è che ad andare a capo

a me

piace.

 

Da Aprile è primavera, 

da Aprile hanno spento il riscaldamento in casa.

 

Piano piano ho riordinato il mio guardaroba, togliendo i maglioni e aggiungendo alla wishlist, scarabocchiata su un post-it, qualche tshirt. A cosa pensavo quando ho messo in valigia solo felpe? Ah, già. America del Nord, la West Coast, Seattle.

Il freddo nove mesi l’anno. I miei progetti si sarebbero dovuti fermare lassù, per fortuna non è accaduto. Ha ha.

Ed oggi sembra Agosto, con quel vento caldo che soffia mentre dal cielo buttano secchiate d’acqua. Guardo fuori dalla finestra, hanno seminato il prato sabato scorso. Sono arrivati in divisa da giardinieri e hanno zappato, piantato bulbi nel cortile spoglio. Quattro messicani, simpatici, con le bretelle e con delle barbe che avrebbero fatto invidia anche al creatore di questa pagina.

Hanno raccolto i rami ed i tronchi che Sandy ha lasciato al suo passaggio a Novembre. Li ho guardati per un po’ dalla finestra della cucina, toglievano i sassi a mani nude dalle aiuole, i messicani. Come se niente fosse si chinavano ad ogni passo, in quei 200 metri quadrati.

Nelle ultime settimane la via dove abito si è riempita di camioncini con pale, sacchetti di terra e rastrelli e vasetti di ceramica sui marciapiedi. In meno di tre giorni l’aspetto dei giardini dei vicini è cambiato ed ormai i fili d’erba seminati sabato scorso hanno raggiunto quasi i sette centimetri. Quattro notti e siamo pronti ad organizzare pic-nic sul nostro nuovo prato. Da non crederci.

Davvero accelerava così il tempo, quando ero in Italia, alla fine dell’inverno?

Questa mattina ho fatto questa domanda a mia mamma, dall’altra parte del globo. Mi ha risposto vaga che comunque sia ci pensano i friulani a tagliare ogni rametto verde in più che ti possa dare speranza di vera primavera, in questo metà Aprile.
E questo è quanto accade stando in casa.
Se si esce invece la vita inizia a colorarsi.

Un mese fa -per esempio- mentre tornavo da New York, è accaduta una di quelle cose che succedono solo nei film, alle donne.

Ho perso la ruota posteriore dalla mia GMC mentre ripartivo al verde di un semaforo. In autostrada.

Nell’istante in cui ho realizzato che cosa era successo sono scoppiata a ridere, o forse a piangere, non ricordo. Non sapevo nemmeno chi chiamare, se restare fuori una volta scesa o rientrare in macchina. Il mio inglese è diventato spagnolo, ho chiesto aiuto a gesti mentre il telefono mi faceva notare che gli restava un misero 5% di batteria.
La gente suonava, era la domenica di San Patrizio, un gruppo di ragazzi vestiti totalmente in verde sono saltati fuori dalla loro Jeep e stringendomi la mano si sono fatti fotografare uno ad uno accanto a me, la macchina amputata e ruota accanto. Il tutto quasi in mezzo ad un incrocio a quattro corsie per parte.

In meno di un’ora mi hanno soccorsa polizia, carro attrezzi marcato Safe-street e pure un simpatico omone in divisa da maresciallo, messicano pure lui. Meno male.

La diagnosi è stata più ovvia che precisa: Revisione mancata nel 2012. Nell’ultimo mese avevo girato con un bullone solo fissato sulla ruota posteriore e quattro nelle altre. Un triciclo praticamente.
Inutile dire che ciò che non uccide fortifica. O arrugginisce, nel mio caso. Dopo le infinite scuse e cena da parte di coloro che mi hanno messo a disposizione il mezzo, la macchina è stata riparata in meno di ventiquattro ore e riportata al suo stato cigolante, ma sicuro.

Ora per qualche strano motivo non funziona la radio ed i finestrini non si abbassano, ma in compenso ho ripreso a guidare. Nonostante questo a trenta giorni di distanza ho ancora il panico quando scatta il verde. Passo gli incroci socchiudendo gli occhi e sudo freddo alla vista di code ai semafori.

*

La nostalgia, questa bestia senza denti, mi prende alla sprovvista mentre ordino una tazza di caffè macchiato sapendo con certezza che dovrò aspettare cinque minuti buoni, prima che il biondino in divisa da panettiere scaldi l’acqua, monti il latte e mescoli il tutto con del caffè in polvere. Per un macchiato. In tazza da cereali, qui funziona così, perché al prepararti un espresso preferiscono servirti un bicchiere d’acqua.
Non che mi dispiaccia aspettare, è quello che accade mentre me ne sto li con le mani nelle tasche a rigirare le monete da un dollaro tra le dita. Discorsi in tonalità diversa, quell’inglese sciolto e disinvolto, le infradito e sfoggiate al primo sole, i pantaloncini corti di Americani rimasti addormentati troppo a lungo sulle poltrone durante questo inverno.

Tutto ciò mi fa venire una nostalgia paragonabile all’invidia, ma in una forma più anonima e bianca,
e vorrei essere tutti loro, contemporaneamente, aver vissuto qui e non aver mai litigato con il fuso orario,
invece in tre mesi sono soltanto riuscita a fare pace con i risvegli alle sette di mattina, gli hamburger due volte a settimana,
i pomodori color arancio
e la promisquità di certi termini, come peperoni, che qui usano per indicare i salumi piccanti.

*

Ti invidio America, così giovane, con quegli Oceani ad abbracciarti e la presunzione di un adolescente, i tempi verbali dimezzati e la musica, che musica! ad amalgamare il tutto.

Ma qui mi sento io dimezzata, se non troppo giovane.

E mi mancano i caffè in tazzina, quella con il manico, il cucchiaino a parte e lo zucchero in bustina sul piattino bianco.
Ci trovavo le parole, a guardare un orizzonte che finiva
ed ora che ho l’infinito davanti, mi pongo dei limiti che mai avrei immaginato.

Tutto qui.

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