Dopo tre settimane, che come arco di tempo suona molto inferiore a ciò che effettivamente tre settimane sono, ho superato i conati del JetLag. Niente più sveglie istintive alle tre del mattino (ora locale), torno a dormire per sei ore consecutive. Certo, riducendo il letto ad un groviglio di lenzuola, ma almeno le occhiaie si stanno mimetizzando con le borse sotto gli occhi.
Non ero abituata a dormire in un materasso così grande. Saranno almeno due piazze e mezze, queste. Nemmeno distendendomi a stella riesco a toccarne il perimetro. Mi chiedo chi si immaginavano di trovare, quando mi hanno preparato la stanza.
Insomma, facciamola breve. Mi piace qui. Oh, un sacco proprio. Nel mio 12% di tempo libero (che equivale esattamente alla percentuale di tasse applicata su ogni spesa fatta in qualsiasi negozio, nello stato di Washington) durante la settimana ho scoperto che – oltre la nebbia c’è:
- La strada che porta alla stradona principale, chiamata 100th Ave NE, che di conseguenza si collega alla 112th Ave NE e così via avanti a dozzine, fino ad arrivare a Seattle, dopo 40 minuti di bus.
- Un paio di Starbucks nei quali, se proprio non ci tieni a scoprire che sapore abbia il caffè americano trasparente, puoi semplicemente prendere un bicchiere di carta, riempirlo a volontà di ciò che vuoi agli erogatori automatici e startene ad un tavolo a farti film su cosa fare dopo.
- Preziose velleità climatiche.
Seattle è davvero magnifica. Permetterei di piovere all’infinito su di me, vivessi in una città così. Cammino e la gente mi scivola ai lati come banchi di pesci tra le reti della downtown. Hanno tutti una meta a Seattle, o perlomeno danno una piacevole impressione di essere impegnati. E pure io lo sono, ma per davvero. Cammino con Angela, una ragazza coreana arrivata negli States con il mio stesso programma, in discesa verso il lungomare. Sorpassiamo signori in cappotto e ragazzi in shorts e cuffie nelle orecchie, un uomo con un’arpa, due acrobati di strada. Cani al guinzaglio, biciclette a tre ruote. Tutto in discesa.
Al Pike Place Market perfino i senzatetto si sono riuniti in cerchio a guardare il sole, così raro. Ecco, non si parla altro che del sole oggi. Tutti a fissare in alto, a onorare con i menti alzati ciò che compare non più di ottanta volte all’anno. Al posto della pioggia o nebbia. Al posto dell’umidità, dell’Oceano nell’aria.
É così armoniosa e fresca questa zona, che quasi mi dispiace lasciarla. Starei bene qui, potessi avere tempo.
Ma per vari motivi non mi è stato concesso avere tempo. Quindi ho fatto in modo che sia il tempo ad aver bisogno di me. Suona colossale e tremendamente pomposo, lo so. Ma ho trovato il modo di rendermi utile sull’altra sponda, del continente. Tradisco la West Coast, per la East. Avrà di me pietà la verdura, frescura e nebbiosità? Gli alberi in muffa, la linea 255 del bus?
Preparo la valigia con calma, tanto il mio volo – prenotato per questo Venerdì – è stato bannato dalla tempesta di neve a New York. E visto che a New York ci dovrei proprio atterrare, tocca aspettare fino a Domenica.
D u e l u n g h i g i o r n i , a n c o r a .
Ecco, quella sensazione di eccitazione misto attesa pre-qualcosa. Distrutta a poche ore dalla sua realizzazione. Da fastidio, anzi prude. Si, mi prude tantissimo e ora che ci penso fa anche male. Ho una valigia troppo grande. Le lenzuola sembrano più ruvide, la cena è un’insalata di banane con lattuga, senza avocado. E senza avocado torniamo ai tempi infelici del Cultural Shock – JetLag. Cose terribili che si combattono solo con la sopportazione di ciò che adesso mi ritrovo come peso, per le prossime 48 ore.
Il tempo.
Ero psicologicamente pronta a partire. Ed ora che devo rimanere qui (tra l’altro non ho più la mia mini percentuale di tempo libero, torno a lavorare seppur per due giorni), ora che devo aprire con cautela la zip, estrarre ancora un paio di calzini, mutande e maglioni, tutto sembra più pesante. Mi vizio da sola e me ne vergogno. Vizio perfino il mio imbarazzo e lo scrivo qui, che mi vergogno.
Non so aspettare e nessuno mi può insegnare a far passare il tempo, in quanto io stessa -nelle ultime tre settimane – ne ho sentito la carenza colossale.
Sarebbe come rifiutare la mamma che ti rimbocca le coperte a vent’anni. Si vorrebbe, ma non si fa.